sabato, 20 Aprile, 2024
Il Cittadino

La natura e le ferite dell’uomo

Ci voleva l’orsa Jj4 che, facendo l’orsa selvaggia ha aggredito mortalmente il runner Andrea Papi nei boschi sopra il paese di Caldes, per riportarci con i piedi per terra: anzi nel pianeta terra.

Andrea Papi ha fatto una morte orribile, che mi riempie di sgomento e che mi fa molto partecipare al dolore delle persone che, con lui, hanno perduto affetti e speranze. Una morte rara: credo che persone che muoiono ogni anno nel mondo a causa di assalti di animali selvatici siano meno di quelle che periscono colpite da un fulmine.

La sua morte però ha sollevato un problema ecologico, che va ben al di là della mera questione etica e giuridica pendente davanti al Tar di Trento, sulla liceità dell’abbattimento dell’orsa: con l’adozione di un temporaneo provvedimento monocratico di diniego che pone al centro la sicurezza umana, tutelabile, secondo il giudice, anche con la segregazione dell’animale selvaggio (insomma ergastolo, non pena di morte).

La questione ecologica sottesa al tragico episodio, però, è diversa ed attiene al rapporto tra l’uomo, mammifero dominante sul pianeta (unico animale che ha la consapevolezza della morte), e gli altri essere viventi, tra i quali molte categorie di predatori.

L’uomo è nello stesso tempo l’essere che più incide sui cambiamenti della natura – avendo, nei milioni di anni della sua evoluzione, sviluppato una complessa civiltà – ma anche l’unico che si preoccupa, o finge di preoccuparsi, del futuro del pianeta.

L’equilibrio della natura è assicurato da una continua lotta tra tutti gli esseri viventi che, alla fine, equilibra e regola – necessariamente anche con la morte – i rapporti tra le diverse specie, vegetali ed animali, che convivono sul pianeta. E lo condividono, anche se necessariamente il lupo si mangia l’agnello e l’agnello bruca l’erba. Perché ogni atto di qualsiasi essere vivente crea un’alterazione della natura: le talpe scavano caverne e gallerie; le formiche creano i loro formicai, gli uccelli i loro nidi, fino alle api che creano una struttura complessa come l’alveare.

Il regno vegetale sembra essere l’elemento più debole della catena, mentre è il più forte e certamente l’ultimo destinato a scomparire (Bob Holmes, La terra senza di noi). Nessun mammifero riesce a raggiungere le dimensioni dei colossi vegetali; e foreste, praterie, giungle dominerebbero, trovando soltanto nel fuoco causato dai fulmini un ostacolo e determinando anch’esse un mutamento climatico.

Oggettivamente l’uomo, con la sua straripante civiltà incide sull’ambiente come mai successo prima.

Il punto – che l’episodio da cui siamo partiti ha reso evidente – è costituito dall’alterazione del rapporto con gli altri esseri viventi e dalla presunzione di avere sempre il controllo di ogni azione: anche quelle dei lupi che, introdotti in alcune zone per contrastare i cinghiali che razziano nelle nostre fattorie, hanno trovato una più tenera preda negli ovini; o degli orsi, per rimanere in tema.

L’uomo, insomma, soprattutto nella nostra cultura occidentale, vuole sicurezza assoluta attorno a sé. Vuole passeggiare nei boschi, come si passeggia in un parco urbano, con la certezza di non essere assalito da un lupo (che uccidono 10 uomini l’anno in tutto il mondo) o da qualsiasi altro animale. Ma nello stesso tempo, chiede che si salvaguardi il lupo e che venga reintrodotto nelle zone in cui non c’è più. A condizione, però, che non lo assalga. Non accetta, insomma, il rischio se pure minimo e statisticamente irrilevante: ad esempio riguardo agli orsi tra il 2000 e il 2015 si sono verificati, a livello mondiale, 664 aggressioni contro uomini, 95 dei quali sono risultati mortali (fonte: la rivista scientifica Nature in uno studio pubblicato nel 2019; molto più pericoloso l’uomo con 81.100 omicidi l’anno, guerre escluse: fonte Onu).

La convivenza tra uomo occidentale – i circa 800 milioni di abitanti di Europa e Nord America (un decimo dell’umanità) –  e natura selvaggia è pressoché impossibile: non si accetta la selvaggità e si ritiene di dovere sempre intervenire, controllare e correggere, anche per finalità ecologiche: anche se  qualsiasi intervento di per sé altera l’ecosistema.

Eppure la convivenza tra uomo e natura selvaggia per noi europei, costretti in uno spazio fisico molto ristretto, è fondamentale.

Il modello americano è per noi improponibile. Per come l’ho percepito io nelle mie poche esperienze di viaggio, esso è semplice e chiaro: dove c’è l’uomo la natura deve piegarsi alle sue esigenze; ma che l’uomo non sposti neppure un sasso nelle “riserve”. Ecco così che mi è capitato di vedere a Miami l’inaugurazione di un’isola artificiale con condomini di lusso (la Claughton Island), realizzata nella Biscayne Bay, già strapiena di arcipelaghi di isole artificiali (Venetian Island, etc.). Ma basta spostarsi una decina di chilometri più a sud e su-est per entrare nella desertiche Everglades, regno dei pericolosi caimani: una palude sterminata che va dal Golfo del Messico alla Biscayne Bay, che qui diventa Parco Nazionale Marino. Alle Everglades la presenza dell’uomo è mal tollerata, guidata e vigilata: già lasciare un’orma è considerato un oltraggio alla natura.

In Italia, in Europa, ciò non è realizzabile per mancanza di spazio: l’ecologia deve realizzarsi in maniera ibrida, conciliando necessariamente le esigenze della natura – da comprimere al minimo – e quelle del vivere moderno.

La così detta ecologia sostenibile: che deve però liberarsi da pregiudizi solamente ideologici, rendersi conto che il problema è globale e che è inutile chiudere una città una volta al mese, se basta un’ora di bombardamento in Ucraina per determinare una ferita ecologica profondissima, un milione di volte negativamente più grande degli effetti positivi di quella chiusura.

Eppure dalle ferite che l’uomo infierisce alla Natura può anche nascere una positività.

Temi difficili: li approfondiremo a Polsi Ambiente 2023 (da venerdì 30 giugno a domenica 2 luglio).

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