Robyn Orlin infiamma il Romaeuropa Festival e lo fa con con colori e sentimenti dal riverbero atomico, perché affondano le radici nell’abisso umano. Questa è la chiamata primigenia a cui deve rispondere l’arte: indagare l’umano senza paracadute nelle sue altezze e senza bombola d’ossigeno negli abissi che lo abitano. Robyn Orlin, sa trasportare il pubblico in questa indagine in maniera magistrale, con un ritmo che è un punzone dietro le reni, tanto all’Opėra di Parigi, alla Biennale di Venezia, quanto sul palco del teatro Vascello per Romaeuropa Festival, e lo fa con il piglio, unico possibile, di una moderna giustiziera, che le è valso l’appellativo di “ineradicabile irritante”.
Irritante perché la sua arte denuncia le ingiustizie, ma cosa è l’arte se non il disvelamento, attraverso la finzione, della verità? Irritante sulle coscienze pelose arriva la realtà dell’apartheid sudafricana, che questa immensa coreografa nata a Johannesburg nel 1955 ha potuto penetrare col suo sguardo. Il passato coloniale del suo paese pervade tutta la sua creazione artistica, è sufficiente percorrere i titoli dei suoi spettacoli per essere richiamati al dovere della memoria, e corpi e colori, impressi nel fondo della sua memoria visiva, esplodono sul palco per rivendicare tutto lo spazio vitale di un popolo ridotto in schiavitù. “We wear out wheels with Pride and slap your streets with colore…we said bonjour to satan in 1820” (indossiamo le nostre ruote con orgoglio e coloriamo le tue strade… abbiamo detto “ciao” a Satana nel 1820), il titolo del suo spettacolo è già da sé una mappa del viaggio in cui ci trasporta, Robyn ci vuole con sé, vuole, attraverso il ritmo, muovere i nostri piedi dentro le strade afose di Durban, riempite del sudore e della disperazione dei risciò Zulù, i taxi umani per turisti, a cui non era concessa nessuna umanità, nessuna sosta, nessuna pietà.
Usa il termine “satana” senza indugi e senza timori Robyn, con la volontà precisa di nominare appropriatamente il mondo e il riferimento alla data di fondazione dell’insediamento inglese di Port Elizabeth in Sudafrica è una denuncia ineludibile già nel programma di sala. Quando lo spettacolo comincia ogni argine si spezza e la storia si rovescia: in passato questi esseri umani ridotti a cosa, merce, mezzo di locomozione, oggi dominano la scena, riempiono i palcoscenici di tutto il mondo, dettano il tempo al battito cardiaco degli spettatori. I colori dei costumi invadono la luce, la bellezza visiva degli ornamenti stavolta non nasconde la sporcizia di una storia fondata sul piacere sadico di umiliare altri esseri umani, stavolta seduce senza produrre sazietà di desiderio, ma spazio aperto di domanda e vergogna di appartenere per genere all’inumano umano. Ma l’arte sa trasformare in luce anche la storia più disperata e come racconta la stessa coreografa, proprio dalle dimostrazioni di danza tradizionale, che i minatori neri organizzavano a Johannesburg, quando lei era bambina, Robyn ha imparato molto sulla danza.
Lo spettacolo è un’ovazione alla resistenza, alla creatività, all’incedibile dignità dello spirito di corpi abusati, di vite che non superavano mai i 35 anni di età dei rikshaws. Il ritmo serrato, mixato alle immagini, i movimenti dei corpi, sono una moltiplicazione, un’esultanza che dirompe con la forza necessaria alla liberazione dalle catene, i diversi piani di linguaggio artistico sono un sovvertimento e una restituzione che trascina e scuote il pubblico durante l’intera esibizione. È insieme l’espressione di un dolore e la forza della liberazione da esso. Gli artisti in scena diventano padroni indiscussi dello sguardo del pubblico, ogni muscolo, ogni movimento occupa l’iride dello spettatore, che insegue sedotto da questo vocabolario epiteliale che grida libertà, creatività, cielo al di sopra di ogni vincolo. Con questo spettacolo il Romaeuropa Festival segna un’altra importante riuscita della sua missione di legante tra passato e futuro attraverso eccellenze internazionali. Robyn Orlin è riuscita nello spazio di due ore a ribaltare la storia: i corpi in passato ignorati, come cosa nuda, diventano, risorti, i signori dello sguardo presente.
Fonte foto: https://romaeuropa.net/