La questione delle comunicazioni non è nuova. La Corte costituzionale (102 del 1976), pose fine al monopolio della Rai, con la conseguenza che l’etere poteva essere annoverato tra i beni comuni. Dichiarò illegittime alcune norme della legge n. 103 del 1975 che non consentivano ai privati, previa autorizzazione, l’esercizio di impianti di diffusione radiofonica e televisiva via etere di portata non eccedente l’ambito locale. L’etere allora da bene eccedente i bisogni umani divenne un bene scarso, con la conseguenza che l’intero settore divenne una giungla. Le emittenti locali, chiedevano ai giudici di mettere ordine e chiedevano provvedimenti d’urgenza e altre cautele che, peraltro, presuppongono anche loro l’esistenza di un diritto soggettivo.
I giudici, in assenza di una legge, assumevano soluzioni diversificate, visto che in questo caso le liti non erano suscettibili di essere risolte né attraverso l’interpretazione estensiva, né attraverso il ricorso all’analogia. Poi intervenne la Legge Mammì.
Disciplina complessa tra concessioni e diritti della persona
La disciplina delle comunicazioni è stata più volte modificata, non sempre per ragioni encomiabili, e così siamo arrivati alla normativa, che molto opportunamente è stata adottata con un decreto legislativo, e segnatamente, dal decreto n. 259 del 2003.
I mezzi di comunicazione sono beni corporali e apparati immateriali: entrambi beni pubblici, che devono necessariamente essere assoggettati a regime concessorio. La nuova disciplina alcune volte richiama i provvedimenti autorizzativi -nella convinzione tale regime valorizzi la liberalizzazione-, non tenendo conto che l’attività in questione esige di essere liberalizzata, ma anche sottoposta a controlli.
Mediante le comunicazioni, infatti, è possibile incidere sui diritti della persona: per questa ragione è indispensabile sottoporre quest’attività a controlli e a misure preventive idonei ad evitare la lesione dei diritti individuali.
Da questo punto di vista la disciplina in esame sembra piuttosto eccessiva, se è vero che essa ha attribuito al Ministero dello Sviluppo Economico poteri di controllo ed è stata costituita un’apposita Autorità (Agcom).
Normativa europea e principio di sussidiarietà
Questa attività integra la fattispecie del pubblico servizio cui la Costituzione riserva rilievo all’art. 43. Esso prescrive che a fini di utilità generale la legge possa riservare originariamente o trasferire salvo indennizzo, allo Stato, ad enti pubblici o a comunità di lavori o di utenti determinate imprese o categorie di imprese, che si riferiscano, fra l’altro, a servizi pubblici essenziali.
La normativa comunitaria, normalmente liberale, in questo caso è stata permeabile ad uno spurio dirigismo. Ma una cosa è il dirigismo altra cosa è la riserva originaria o il trasferimento di impresa. Se è indiscusso che l’Unione ha competenza in tema di concorrenza, nondimeno le comunicazioni non comportano solo problemi di concorrenza.
È probabile, dunque, che gli organi comunitari abbiano ritenuto che l’adozione dei principi in materia trovi il suo fondamento nell’art. 352 del TCE. secondo il quale essa può decidere in specifiche ipotesi. Questa prescrizione si pone in contrasto con un altro principio fondamentale dell’Unione, ossia con il principio di sussidiarietà: l’Unione dovrebbe ad intervenire solo quando la normativa dei vari Stati membri è insufficiente.