venerdì, 26 Aprile, 2024
Società

Giustizia a misura di cittadino

“Non è più concepibile in Italia, anche alla luce dell’attuale conformazione tendenzialmente accusatoria del processo penale, una omogeneità culturale e, addirittura, di carriera tra pubblici ministeri e organi giudicanti”. L’avvocato penalista Michele Riggi, già Consigliere dell’Ordine degli Avvocati di Torre Annunziata ed attuale componente della fondazione di diritto pubblico “Enrico De Nicola” (che si occupa di formazione post universitaria in materia giuridica e di accesso alle professioni legali), sulla scorta della sua lunga frequentazione delle aule dibattimentali, delinea alla Discussione la sua visione di una giustizia a misura di cittadino.

Michele Riggi

L’effettività della pena, per generale ammissione, è una delle maggiori criticità del sistema giudiziario italiano. Come mai? E cosa si può fare per arrivare alla certezza della pena?
“Io ribalterei la considerazione iniziale: accanto all’effettività della pena, per fortuna e direi, grazie all’illuminato contributo  di tutti coloro (legislatore, Università , avvocati e magistrati) che nel corso degli secoli si sono cimentati con la materia, sono nati e si sono gradualmente sedimentati nel nostro Ordinamento tutti quegli strumenti, processuali e sostanziali, che consentono al sistema penale di guardare al reo come individuo, persona fisica e non semplicisticamente come autore del tipo di reato. Una persona, dunque, a cui  è stato possibile riconoscere  una gradualità di benefici in grado di neutralizzare, in presenza di una volontà di risocializzazione del reo, quella funzione retributiva della pena, ancora presente, non solo in teoria, nel sistema penale, ma certamente non preminente, se solo si vogliono evocare  gli insuperabili  principi  del secondo comma dell’art. 27 della nostra Costituzione (“ Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”) e dell’ art.3 della Convenzione europea dei diritti dell’Uomo che, anche a proposito di esecuzione della sanzione penale, così recita: “Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti”.

Questo in astratto…
Certo, nella realtà di tutti i giorni le cose non stanno esattamente come questi fondamentali precetti recitano, ma immaginare un sistema che non contenga possibilità per il condannato di poter, anche con il consenso delle vittime da reato, aspirare a riguadagnarsi il suo pieno diritto alla cittadinanza è un’idea contraria non solo alle leggi ed alla nostra cultura laica ed occidentale ma, oserei dire, alla natura dell’essere umano.  A cui mai, anche al peggiore degli individui, potrà essere proibito di anelare  al suo personale riscatto. Taluni (quasi sempre,  “non addetti ai lavori”) possono essere portati a pensare che istituti patrimonio della nostra civiltà giuridica – come quello della “sospensione condizionale della pena” oppure riforme oramai consolidate, come quella che ha consentito alla magistratura di sorveglianza di estendere (con la legge” Gozzini” del 1986) le cosiddette misure alternative al carcere – siano “regali” fatti ai delinquenti, voluti dal  nostro legislatore e , in ultima analisi, dai nostri politici”.

È così?
“Non è affatto così: per fare solo un esempio, possiamo immaginare cosa succederebbe se un giornalista, condannato per diffamazione a mezzo stampa, dovesse scontare in carcere quei pochi giorni inflitti in seguito ad un regolare e rapido processo? Con tutte le conseguenze in tema di libertà democratiche e, molto più prosaicamente, di sovraffollamento infrastrutture penitenziarie”.

Cosa fare, dunque?
“Una delle soluzioni per rendere ancor più giusta accettabile la pena agli occhi anche dell’opinione pubblica rimane quella di una riforma complessiva dell’ordinamento penale, che sfoltisca prima di tutto l’intricata giungla del numero infinito di figure di reato (circa 15mila!) e si occupi, poi, della velocizzazione dei processi, magari impiegando gli indiscutibili vantaggi degli strumenti telematici. Molti, compresi noi avvocati, dimenticano che l’afflittività è una caratteristica che non riguarda solo la sanzione penale ma, purtroppo, anche, e sempre di più, la lunga e, spesso, interminabile sottoposizione alle lungaggini del processo penale”.

In Italia c’è un apposito capitolo del bilancio dello Stato che riguarda la riparazione degli errori giudiziari. In che modo, a suo avviso, si può limitare la possibilità di errore?
“Anche questo tema, dibattuto moltissimo nel nostro Paese, è di difficile soluzione perché foriero, da sempre, di dispute e contrapposizioni corporative, in particolare da parte dei rappresentanti della magistratura associata. Cominciamo col dire che, intanto dal 1992 (anno da cui parte la contabilità ufficiale delle riparazioni per ingiusta detenzione presso il Ministero dell’Economia e delle Finanze) al 30 settembre 2018, si sono registrati oltre 27.200 casi: in media, 1007 innocenti ogni anno (nello specifico in custodia cautelare). Il tutto per una spesa che, dal 1992, sfiora i 740 milioni di euro in indennizzi, per una media di 27,4 milioni di euro l’anno. Ebbene, entrando nel merito, tecnicamente la riparazione dell’errore giudiziario, come quella per l’ingiusta detenzione, non ha natura di risarcimento del danno ma di semplice indennità o indennizzo. Il danneggiato dovrebbe fornire la prova sia dell’esistenza dell’elemento soggettivo (dolo o colpa) delle persone fisiche (magistrati) che hanno agito, sia la prova dell’entità dei danni subiti: è di facile intuizione, allora, comprendere quanto sia difficile intervenire con una incisiva riforma in una materia, che pur prevedendo già una responsabilità indiretta del magistrato persona fisica, resta, tuttavia, da sempre “incandescente”. E allora, se non si vuole mettere mano  alla novità “copernicana” di prevedere una responsabilità civile individuale  e diretta del giudice che redige il provvedimento che cristallizza l’errore giudiziario, il buon senso, coniugata all’esperienza di chi davvero vive tutti i giorni queste vicende, imporrebbero, intanto, di stanziare maggiori fondi per venire incontro alle legittime richieste delle vittime della malagiustizia e, nel contempo, rafforzare l’organico e la formazione continua dei componenti degli organi giudicanti. Ma, mi rendo conto, che se una proposta così scontata e banale finora non ha portato a nulla, qualcosa significherà, senza fare troppi sforzi retorici”.

È favorevole alla separazione delle carriere ed alla istituzione di un doppio organo di autogoverno?
“Assolutamente si. Ho firmato per la legge di iniziativa popolare promossa dall’Unione delle Camere penali di cui mi pregio di essere un iscritto. Sotto questo profilo l’avvocatura penale e non ha mostrato una compattezza esemplare, direi granitica. Absit iniuria verbis, ma non è più concepibile in Italia, anche alla luce dell’attuale conformazione tendenzialmente accusatoria del processo penale, una omogeneità culturale e, addirittura, di carriera tra pubblici ministeri e organi giudicanti. È un’anomalia che resta tutta italiana, pur doverosamente esercitandoci nella comparazione con gli ordinamenti stranieri, sia di “common” che di “civil law” per trovare dei punti in comune”.

Nell’attuale sistema penale è garantita la parità tra accusa e difesa?
“Secondo me no. Parto dalla mia personale, umile, ma oramai ultraventennale  professione di avvocato penalista: quando difendo persone che, ahimè, non possono disporre di forti risorse economiche, soprattutto nella fase delle indagini preliminari, diventa impossibile competere ad armi pari con la pubblica accusa che, a differenza della difesa, può servirsi di consulenti tecnici all’altezza della situazione e, soprattutto, utilizzare strumenti investigativi (intercettazioni, formidabili nuclei di polizia giudiziaria ecc.) che gli avvocati (altro che indagini difensive…) purtroppo si sognano. Quante volte è accaduto che molti miei assistiti, di fronte alla nomina da parte del p.m. del proprio medico legale o dell’esperto urbanista, non avessero le risorse (non ricorrendo nemmeno le restrittivissime condizioni di legge e di reddito per l’accesso al patrocinio a spese dello Stato) per indicare i propri consulenti tecnici di fiducia”.

In definitiva ritiene che gli Italiani possano riporre la loro fiducia nella giustizia terrena o è il caso di confidare in quella divina?
“Nutrendo un fortissimo rispetto verso le nostre Istituzioni, devo affermare che i nostri connazionali hanno bisogno di continuare a credere nel sistema giustizia dove, in primis avvocati e magistrati, ma anche cancellieri e collaboratori amministrativi, non possono non continuare a lavorare per una Società più equa, giusta e civile.

Ma, mi rendo conto che, qualche volta (e forse più di qualche volta…) diventa inevitabile, al cospetto dell’indolenza dell’essere umano e dei suoi arzigogolati disegni, rivolgersi alle “autorità” ultraterrene”.

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