giovedì, 28 Marzo, 2024
Politica

Il Governo democriDRAGHIANO

Giura senza tentennamenti il nuovo governo democridraghico. Un po’ stile vecchia dc e un po’ supermegamanageriale.

Tecnico come il premier prossimo venturo, quel Mario Draghi che non si è mai capito per chi votasse.
E politico perché diviso tra partiti in perfetto manuale Cencelli della prima repubblica (per chi non lo ricordasse il sistema che usava la dc per spartire equamente tra le correnti i posti di governo). Giura il nuovo Presidente del Consiglio e la sua voce ricorda un po’ quella dell’avvocato Agnelli con quelle c morbide e chic, l’erre leggermente moscia e l’autorevolezza dell’economista al top del mondo. Giurano i ministri tecnici, stesso piglio sicuro e certezze granitiche sul lavoro – e che lavoro tra campagna di vaccinazione e Recovery Plan-che andranno a svolgere.

E giurano i politici. I più commossi sembrano proprio loro, che pure dovrebbe essere ben navigati. Arrivano per primi la leghista Erika Stefani ed il trio forzista Brunetta, Carfagna e Gelmini, scelti da Draghi forse perché i più lontani dalla deriva sovranista che in parecchi in Forza Italia avevano imboccato per garantirsi maggiori consensi nelle elezioni future. Ultima la tecnica MariaCristina Messa, neo ministro dell’Università, prima donna rettore alla Bicocca e ordinaria di Medicina Nucleare. E all’uscita solo Bianchi e Franceschini si concedono ai cronisti. Il primo dice di aver trovato” della bella gente” e “di averlo imparato solo ieri e speriamo di fare bene. Il secondo promette impegno per la cultura così massacrata dal virus.

Nessuna stretta di mano in tempo di COVID, neppure nel passaggio successivo di consegne a palazzo Chigi persino la campanella si poggia su un vassoio, con Conte che sorride, ostentatamente cordiale.

Altri tete a tete prima dell’inizio della cerimonia al Quirinale, Giorgetti e Cingolani, Carfagna e Lamorgese, tanti per conoscersi un po’. Poi i 23 ministri siedono a distanza al centro del salone delle Feste. Nessun parente ammesso, un solo fotografo, quello del Quirinale e due telecamere, le ufficiali. E distanziamento persino per la foto di gruppo, nel salone dei Corazzieri, allineati in tre file da sette e ad un metro uno dall’altro, (anche se tutti sono tamponati altrimenti al Quirinale non si entra). Il primo a pronunciare le parole di rito dopo il premier è il pentastellato D’Incà, certamente più emozionato di Colao, che segue a ruota. Brunetta legge scandendo le parole, teso e un po’ sudato così compreso nel ruolo che pure resta lo stesso del passato, la Pubblica Amministrazione. Carfagna e Gelmini recitano a memoria, come Patuanelli e la Bonetti. Tutti sembrano alla loro prima volta.

I tecnici no. Pronunciano la frase del giuramento come se leggessero le quotazioni in borsa, attenti sì, ma navigati al mercato.

A loro il compito-che non a caso Mario draghi ha tenuto per sé e per i suoi – di riscrivere e soprattutto attuare il piano Marshall degli anni 2020, che tradotto in soldoni significa utilizzare più di 200 miliardi di euro che l’Europa ci ha concesso per uscire dalla crisi economica da corona virus. Detta così, sembra la debacle del sistema politico. E sono in molti a pensarlo. Ma saranno politica e partiti a votare quel governo in parlamento e farlo andare avanti poi, incoraggiandone o meno il cammino. Saranno controllo, sprono e verifica. Per ora resta più di un mal di pancia per come è andata, nei cinque stelle che certamente perderanno pezzi. E tra i democratici che hanno fallito in quella svolta femminile promessa ma mai arrivata.
Ora, a politica e partiti toccherà anche il compito non meno oneroso di riformare se stessi e il sistema. Con una nuova legge elettorale, la fine del bicameralismo e magari l’introduzione della sfiducia costruttiva. Tanto per fornire qualche umile suggerimento.

Ai politici, perché i tecnici non ne hanno bisogno.

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