Tra i punti su cui il governo ha ragione a insistere c’è la difesa del Made in Italy. Tuttavia, come ha sottolineato in un suo recente editoriale il nostro Direttore, “non deve trattarsi solo di una battaglia di bandiera”. In altri termini, “inteso come bollino di qualità dei nostri prodotti (il Made in Italy) va sicuramente difeso”. A patto però di creare le opportune condizioni affinché questo possa accadere nella sostanza.
Questione di leadership…
Il ragionamento si articola attorno a un punto chiave: la leadership, ovvero la qualità della classe dirigente espressa attraverso la capacità delle nostre aziende di competere sui mercati, ivi inclusa quella di innovare.
Il riferimento alla classe dirigente porta, nelle dinamiche di mercato, la componente umana. Il che ci aiuta meglio a mettere a fuoco il senso profondo di un brand, quello del Made in Italy, che fu creato negli anni ‘80 per contrastare la falsificazione del prodotto italiano. Tanto nell’interesse del produttore, quanto del consumatore.
…e di comunità
Tuttavia, c’è un ulteriore aspetto umano che non va trascurato e su cui, invece, va posta grande attenzione. Prendendo in prestito il lavoro sui “place brand” di due ricercatrici dell’università gallese di Bangor, Sonya Hanna e Thora Tenbrink, emerge come i tentativi di valorizzare un luogo, e quindi l’eccellenza che lo caratterizza, hanno mirato a stimolare le comunità a lavorare insieme per creare e comunicare un’identità condivisa.
A questo proposito le due accademiche portano molti esempi, a cominciare dall’iconico INY fino ai più recenti People Make Glasgow oppure Inspired by Iceland, passando attraverso diverse iniziative tese a esprimere le necessità delle comunità locali, al fine di attivare politiche e risorse tese a soddisfarle.
Insomma, più che una questione autarchica, la logica di quei marchi che mirano a valorizzare un luogo con le sue eccellenze non prescinde dalla coesione della comunità. Perché se le persone che ne fanno parte “si sentono più positivi nei confronti di una città o di un’area, saranno più pronte a contribuire a migliorarla”.
Ecco dunque perché promuovere il Made in Italy, come marchio a tutela dell’eccellenza italiana, ha senso solo nella misura in cui non si prescinde dalla soddisfazione delle persone delle comunità che contribuiscono a produrla. Altrimenti avrà un mero effetto greenwashing, o bandiera che dir si voglia, il che non aiuterebbe a combattere alcuna contraffazione. Anzi, continuerebbe a legittimarne l’esistenza.