venerdì, 29 Marzo, 2024
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Autonomi, fine di un sogno crollo delle partite Iva. Il 22.4% in povertà

Da piccolo è bello, all’incubo di una vita solitaria, priva di soddisfazioni economiche, nel mirino di verifiche fiscali. Per cosa puoi? Per la maggior parte constatare bilanci magri e scarse occasioni di gloria. Lo scenario della mutazione del lavoro autonomo si traduce con l’apertura della partita Iva vissuta ora come un ripiego o, peggio, come un espediente che un committente impone per evitare una assunzione.
La fine di un sogno, come sottolinea la società di analisi socio economiche Cgia di Mestre, che parla della fine di uno “status symbol”.

La crisi del lavoro autonomo

A indagare sulla caduta del lavoro autonomo è l’Ufficio studi della società Mestrina, che racconta: “Nel 2021 il rischio povertà o esclusione sociale delle famiglie con reddito principale da lavoro autonomo è stato superiore a quello dei nuclei che, invece, vivono con uno stipendio fisso”.

Il “popolo” degli esclusi

Per la Cgia la crisi del popolo delle partite Iva testimonia, ancora una volta, come tra gli occupati italiani il cosiddetto popolo delle partite Iva (artigiani, commercianti, lavoratori autonomi, liberi professionisti, etc.), abbia meno sicurezze e più difficoltà economiche dei lavoratori dipendenti. “Figuriamoci dopo oltre due anni e mezzo di emergenza sanitaria che tra chiusure per decreto e limitazioni alla mobilità hanno messo in ginocchio, in particolar modo, una gran parte dei titolari di botteghe e di negozi di vicinato”, osserva l’Ufficio studi.

Tra ammortizzatori e il niente

“Non è che alle maestranze le cose siano andate meglio”, evidenzia la Cgia, che tuttavia ricorda . “Per queste ultime, comunque, gli ammortizzatori sociali a disposizione per legge hanno ‘smorzato’ il colpo; per chi, invece, dopo i vari lockdown è stato costretto a chiudere definitivamente l’attività, non è rimasto che reinventarsi il futuro”.

L’arrivo della povertà

A scivolare nella indigenza sono così le famiglie degli autonomi. Il calcolo vede il 22,4 per cento in povertà. In un anno inoltre la differenza tra famiglie di autonomi e quelle di dipendenti ha avuto una
significativa disparità. “L’anno scorso la percentuale di famiglie con reddito principale da lavoro dipendente che si trovava a rischio povertà o esclusione sociale era al 18,4 per cento”, rivela la Cgia, “per quelle con reddito principale da lavoro autonomo, invece, era al 22,4 per cento”. A passarsela ancora peggio sono le famiglie che vivono di pensione, che hanno visto aumentare notevolmente la situazione di marginalità economica. L’incidenza dal 31,8 per cento del 2019 ha toccato il 33,9 per cento del 2021.

I bonus come salvagenti

C’è un interrogativo a cui la Cgia da una risposta, come è stato possibile che malgrado le avversità le famiglie abbiano ancora retto all’urto della pandemia e della crisi dei costi dell’energia? “In primo luogo”, si fa presente, “grazie agli aiuti messi in campo dagli ultimi governi: tra bonus, ristori, contributi agevolati e crediti di imposta, nel biennio 2020- 2021 i governi che si sono succeduti hanno messo in campo circa 180 miliardi di euro che, in parte, sono riusciti ad ammortizzare gli effetti della crisi su famiglie e imprese”.

I paradossi dell’indagine

L’Ufficio studi mette a punto anche una seconda riflessione. Il metodo usato per l’indagine che mette fuori gioco chi ha chiuso l’attività o ha perso il lavoro. Una sottolineatura che spiega come il bacino di persone in povertà sia anche maggiore di ciò che i dati indicano.
“Va segnalata la modalità con cui si esegue l’indagine”, scrive la Cgia, “Essa è telefonica ed è rivolta al capo famiglia che esercita l’attività in proprio, oppure è occupato come dipendente presso un’azienda. Se tra un anno e l’altro quel piccolo imprenditore ha cessato l’attività, oppure è stato licenziato, il destinatario della telefonata non fa più parte della propria “categoria” iniziale. In altre parole, chi con la crisi è uscito dal mercato del lavoro non fa più parte del cluster per cui era stato oggetto dell’indagine”. Pertanto, una gran parte di chi si trova in difficoltà che, ad esempio, è stato costretto alla chiusura dell’attività, è “scivolato” fuori dai radar dell’indagine.

Gli autonomi gettano la spugna

A distanza di 30 mesi dall’avvento della pandemia, in Italia c’è stato un recupero del numero degli occupati nel contempo molti autonomi hanno chiuso l’attività. “Se tra il febbraio 2020 (mese precedente l’arrivo
del Covid) e lo scorso mese di agosto (ultimo dato reso disponibile dall’Istat) abbiamo 56 mila occupati in più, le due componenti che costituiscono l’intero stock (lavoratori dipendenti e autonomi) presentano, invece, risultati di segno opposto. Il numero dei lavoratori autonomi, infatti, è sceso di 155 mila unità”.
Se prima della pandemia erano poco meno di 5,2 milioni, ad agosto si sono attestati a poco più di 5 milioni. Il numero dei dipendenti, invece, è aumentato di 211 mila unità. Prima della pandemia ne avevamo
poco più di 17,8 milioni, quest’estate il numero è salito a poco più di 18 milioni.

Lavoro dipendente precario

Se gli autonomi lasciano per chi è assunto il lavoro non offre particolari prospettive.
“Va segnalato”, osserva ancora la Cgia, “che tra i lavoratori dipendenti si è ridotto il numero di coloro che hanno un contratto a tempo indeterminato, mentre sono aumentati i lavoratori a termine”. Un fatto
negativo, problema al centro di nuove iniziative sindacali. La precarietà sarà uno dei temi su cui il dibattito sarà animato.

Autonomi verso il sommerso

Certo, il rischio imprenditoriale fa parte di questa esperienza, ma a differenza dei lavoratori subordinati, quando un autonomo chiude definitivamente l’attività non dispone praticamente di alcuna misura di
sostegno al reddito. “Perso il lavoro ci si rimette in gioco e si va alla ricerca di una nuova occupazione”, evidenzia l’Ufficio studi, “In questi ultimi anni, purtroppo, non è stato facile trovarne un altro: spesso l’età non più giovanissima e le difficoltà del momento hanno costituito una barriera invalicabile al reinserimento, spingendo queste persone verso forme di lavoro completamente in nero”.

Fine di un sogno sociale

“Fino ad una decina di anni fa aprire una partita Iva era il raggiungimento di un sogno: un vero status symbol”, ricorda la Cgia, “L’opinione pubblica collocava questo neoimprenditore tra le classi socio-economiche più elevate. Oggi, invece, non è più così: per un giovane, in particolar modo, l’apertura della partita Iva spesso è vissuta come un ripiego o, peggio ancora, come un espediente che un
committente gli impone per evitare di assumerlo come dipendente”.

Caro bollette nuove chiusure

L’aumento esponenziale dei prezzi, il caro carburante e quello delle bollette potrebbero peggiorare notevolmente la situazione economica di tantissime famiglie, soprattutto quelle composte da autonomi. “Nel ricordare che il 70 per cento circa degli artigiani e dei commercianti lavora da solo, ovvero non ha né dipendenti né collaboratori familiari, moltissimi stanno pagando due volte lo straordinario aumento registrato in questi ultimi 10 mesi dalle bollette di luce e gas”, conclude l’analisi della Cgia, “La prima come utenti domestici e la seconda come piccoli imprenditori per riscaldare/raffrescare e illuminare le proprie botteghe e negozi. E nonostante le misure di mitigazione introdotte in questi ultimi mesi dal Governo Draghi, i costi energetici sono esplosi, raggiungendo livelli mai visti nel recente passato”.

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