venerdì, 19 Aprile, 2024
Il Cittadino

Femministe e “femminote”

È fine luglio, estate piena; siamo tutti stanchi, distratti dall’imminenza delle vacanze, annoiati dai riti politici che hanno portato – senza molto senso, direi – ad insolite elezioni estive.

Consentitemi allora un tema leggero e divagazioni pseudo-letterarie.

Lo spunto è dato dall’ultimo recentissimo matrimonio di Jennifer Lynn Affleck.

L’ultimo, perché la fanciulla (almeno ai miei occhi; ma ha 53 anni: età che stento a riconoscere a me stesso; figuratevi a lei che è bella come una musa) si è già sposata un bel po’ di volte. Ho studiato e vi riferisco: nel 1997 si sposa con il cubano Ojani Noa; tra il 1999 e il 2001 ha una relazione con il rapper P. Diddy; ma già il 29 settembre 2001 sposa il ballerino Cris Judd; nel 2004 fa la sposa che fugge dall’altare dove l’attendeva l’attore Ben Afflek; dopo una relazione col manager Irving Azoff, sposa, invece, nel 2008 un suo vecchio amico Marc Anthony; poi, senza sposarsi dal 2011 al 2016 ha una relazione con il ballerino Casper Smart e dal 2016 al 2021 con un campione di baseball, Alexander Rodriguez; in questo luglio 2022, infine, celebra il matrimonio non concluso nel 2004, sposando finalmente Ben Afflek: ed assumendone il cognome, in luogo del natio “Lopez”.

Fanno quattro matrimoni regolari e quattro lunghe relazioni ufficiali.

In tutto questo Jennifer Lynn Affleck è divenuta una star a livello mondiale nel campo artistico, è riconosciuta come la donna ispanica più influente al mondo e si è affermata come imprenditrice in vari campi: produzione cinematografica (J.lo inc.) e televisiva, ristorazione, profumi.

Una donna insomma che è tutto, tranne che sottomessa alle persone di sesso maschile.

Eppure è bastato che con l’ultimo matrimonio scegliesse di adottare il cognome del marito per scatenare – senza convinzione, mi sembra, ma solo per dovere d’ufficio – un qualche rigurgito vetero femminista circa una soggiogazione femminile che non so da cosa possa essere ispirata.

Femminismo di facciata, derivato certamente dalla non conoscenza (per generazione) o dalla dimenticanza (sempre per ragioni generazionali) che la donna che è stata forse la più formidabile femminista di un’epoca che ancora voleva la femmina a casa e con gli occhi a terra, aveva assunto (e mantenuto anche dopo il divorzio) il cognome del marito.

Si tratta di Erica Jong, nata Mann nel 1942. Erica Jong – col cognome del marito –  mezzo secolo fa, nel 1973 pubblicò in USA il romanzo (parzialmente autobiografico) “Paura di volare”. Un libro che fece scandalo, non tanto perché metteva in risalto e dimostrava come necessari i temi del femminismo degli anni sessanta, ma per la franchezza – spinta fino alla spudoratezza – con cui parlava del desiderio sessuale femminile: in nulla differenziandolo da quello maschile.

Fino a giungere all’invenzione della “scopata senza cerniera”: il sesso senza amore, un rapporto sessuale con una persona sconosciuta e che mai più si rivedrà: puro sesso, senza sentimenti.

La protagonista del romanzo lo fa in treno, in Italia, nel buio di una galleria; e dopo non è sicura neppure su chi sia stato il suo partner.

E a questo punto dò un senso a queste mie divagazioni, esternando una considerazione che mi tengo dentro da allora: quindi da mezzo secolo.

Nello stesso periodo in cui uscì in Italia il libro di Erica Jong (1975), Stefano D’Arrigo, l’Omero messinese, dopo una gestazione di quasi vent’anni, pubblicò Horcynus Orca, un romanzone di più di mille pagine, con un linguaggio che anticipa in un certo senso il siculo-italiano di Camilleri.

Credo di essere stato uno dei pochi che ha letto dalla prima all’ultima riga l’odissea del marinaio ‘Ndrja Cambrìa, che nel periodo dell’occupazione nazista, da Praia a Mare discende le coste calabre con un gruppo di “femminote” (le formidabili donne di Bagnara: da sempre così emancipate da essere già all’epoca post-femministe) incontrate per caso; e che segue col bisogno vitale di attraversare lo Stretto: un viaggio tra miti, “fere” e mostri, come appunto l’Orca, il mostro del titolo.

Qui la “scopata senza cerniera” definita da Erica Jong, avviene in maniera naturale. Protagoniste le “femminote”, forse discendenti delle Sirene, forse lussuriose baccanti.

‘Ndrja le segue perché capisce che loro sanno. Il racconto di D’Arrigo non ha censure. Fa parlare le “femminote” esplicitamente di sesso. Fa loro raccontare dell’amore nel traghetto, nel “ferribò”.

E qui si crea la stessa situazione della “scopata senza cerniera” di Erica Jong. Una “femminota”, stanca per la fatica, lungo la traversata dello Stretto, si appoggia nel ferribò ad una scaletta per riposarsi. Arriva alle sue spalle un macchinista (lei ne capisce il mestiere dall’odore), e le si avvicina: lei lo lascia fare. Da allora ogni volta che attraversa lo Stretto lei si appoggerà a quella stessa scaletta: e lui arriverà puntuale e silenzioso e fedele a compiere il suo dovere.

Non si vedono mai in faccia.

Ecco, allora orgogliosamente rivendico l’invenzione della “scopata senza cerniera” a D’Arrigo, alle “femminote”. E, avendone l’età, dò lo stesso consiglio che un vecchio nel romanzo diede a ‘Ndrja: ingraziatevi le “femminote”; c’è sempre uno Stretto da attraversare.

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