Chi cerca di costruire un progetto condiviso non può ignorare che il successo personale deve essere perseguito insieme con il progresso dell’impresa e della società più in generale, così da diventare un unico e fecondo progresso. Le legittime aspirazioni individuali possono essere deformanti se perseguite unicamente come movente del successo personale. Una realizzazione piena del mandato che una società affida alla sua classe dirigente, passa attraverso un lavoro equilibrato di progresso complessivo che bilanci il bene personale e il bene comune.
Nel mondo contadino esisteva un vecchio detto: “Il sole deve scaldare tutti”.
È un’immagine semplice, ma efficace. Un’immagine che ci dice che se una società non permette a tutti di vivere dignitosamente, di programmare un percorso di vita e di famiglia, di intravedere un fu turo migliore per sé e per i propri figli, ecco: se una società non lascia intravedere questo percorso è una società destinata a fallire. Non può sopravvivere, in equilibrio e progresso condiviso, una società dove la diseguaglianza e lo svantaggio non trovano momenti di correzione.
Un equilibrio in grado di dare soddisfazioni mature all’individuo, per una realizzazione piena e forte del mandato che la società assegna alla propria classe dirigente. Ecco perché occorre coltivare una forte tensione a spendere la propria professionalità, la propria intelligenza e la propria creatività, per sviluppare in modo armonico il successo individuale e quello collettivo. Per questo la pienezza del proprio bene, della soddisfazione che cerchiamo nello svolgere il nostro lavoro, nel perseguire i nostri obiettivi, deve essere cercata con passione, corteggiata e conquistata dalla coscienza per essere riportata nell’ esistenza quotidiana. Un discernimento svolto con lealtà e trasparenza.
Ho cercato, fino a questo punto di individuare il terreno su cui si fonda, in Italia, oggi la creazione di un tessuto identitario comune.
Se vogliamo, perciò, ritrovare una comunanza di obiettivi, le strutture di rappresentanza devono però registrare i loro poteri interni, ma —soprattutto— devono diventare voce di quello che oggi chiede la società italiana. Una voce che rispecchia gli umori della gente, il linguaggio quotidiano, le paure e le preoccupazioni delle famiglie, dei giovani, degli anziani. La realtà è sempre meglio delle opinioni. C’è una bellissima frase di papa Francesco: “le opinioni non radunano, la realtà è”. Ecco: per percorrere una strada comune occorre essere dalla parte della realtà. Su questi elementi si fonda, oggi, l’identità della nazione.
Un’identità che non viene da un codice genetico, da chi urla più forte, da chi protesta in piazza.
Non è un’attribuzione stabilita per legge.
Non è, tantomeno, uno spazio studiato a tavolino: essa è invece combinazione di interessi, di partecipazione e di aspirazioni.
Prendiamo un esempio: l’immigrazione.
Inutile ricordare che siamo stati un popolo di emigranti, con tutte le riflessioni conseguenti.
L’immigrazione può diventare un concetto di identità?
Se noi ci limitiamo a dire: guardate, arrivano immigrati da tutte le parti, esplodono i centri di raccolta, portano criminalità… ecc… ecc… se noi ci limitiamo a tutto questo il fenomeno sarà sempre percepito con una valenza negativa.
Ma se noi cerchiamo una cornice istituzionale, lavoristica e contrattuale, per l’Italia il fenomeno può diventare un’opportunità. E lo ò già diventata in alcuni casi.
Allora c’è bisogno di orgoglio e coraggio.
Orgoglio per essere parte di una componente indispensabile nella gestione di una società complessa, coraggio nel recuperare le ragioni dello stare insieme, ripercorrendo le fila delle proprie origini e renderle collante dello stare insieme.