Negli ultimi anni la parola inclusività è sulla bocca di tutti: passerelle, copertine, social media e pubblicità ne sono pieni. Ovunque si parla di accettazione, rappresentazione e diversità. Movimenti come quello della body positivity hanno acquisito sempre più visibilità e consapevolezza. Attiviste contro la “grassofobia” rivendicano il proprio spazio nel mondo, chiedendo di essere rappresentate, non ghettizzate. Eppure, nonostante questo apparente cambiamento, la magrezza continua a essere il modello dominante. Perché? La risposta è semplice: è una questione di marketing.
Il corpo magro, tonico, anche se a volte addirittura emaciato, è diventato uno strumento perfetto per vendere. È un modello che genera emulazione e, al contempo, insicurezze, che stimolano il consumo. Il mercato ha bisogno di standard difficili da raggiungere per poter vendere soluzioni facili: diete, allenamenti, cosmetici, chirurgia estetica, abbigliamento modellante. Sono innumerevoli le multinazionali che lucrano su questi standard, seguendo una delle leggi base del marketing: creare un bisogno per poi offrire la soluzione.
Un corpo “imperfetto” che si accetta non genera profitto. Un corpo insicuro, sì
Nel tempo, il mercato ha orientato i gusti estetici verso la magrezza estrema, arrivando negli Anni ’90 a promuovere la controversa tendenza dell’”heroin chic”, con una magrissima Kate Moss come icona. Corpi sottili e affamati sono diventati oggetti di culto. Ma cosa generano queste “mode”? Non certo un cambiamento spontaneo della società, bensì strategie di mercato ben precise, cioè tecniche di marketing applicate.
Creazione di modelli irraggiungibili
Il mercato propone propone un ideale difficilissimo da raggiungere, che genera senso di inadeguatezza e spinge le persone a spendere in farmaci, cosmetici, abbigliamento, programmi fitness, chirurgia. E la magrezza diviene sinonimo di successo: viene associata a valori positivi come autocontrollo, disciplina, bellezza, dinamismo. Al contrario, il sovrappeso viene legato a pigrizia, bassa autostima, inaffidabilità.
Testimonial magre e bellissime
Con questo tipo di modelle si sfrutta il desiderio di emulazione, inducendo il consumatore a pensare che acquistando un certo prodotto possa assomigliare alla modella. Far leva sulle insicurezze può essere poco etico, ma è estremamente efficace per vendere. I giovani e, in particolare, le donne sono i target più vulnerabili e influenzabili, da bersagliare.
Rappresentazione dei corpi sovrappeso come goffi e di secondo ordine
Se pensiamo ai film o alle pubblicità, il personaggio sovrappeso era sempre quello buffo o preso in giro. La produzione di abiti si ferma spesso a taglie considerate “normali”: la stragrande maggioranza dei brand produce fino a taglie 46-48, escludendo chi ha una corporatura fuori questo standard. Alla fine, possiamo dire che l’attrazione verso un corpo “slim” è un gusto indotto, non oggettivo. D’altra parte, è sempre stato così. Basti guardare alla storia: ogni epoca ha avuto i propri canoni estetici, spesso determinati da fattori politici ed economici. Negli Anni ’50, Marylin Monroe rappresentava l’ideale di bellezza con le sue forme morbide, simbolo di benessere e femminilità. Oggi, quello stesso corpo verrebbe facilmente criticato sui social, vittima di body shaming.
Inclusività come trend di mercato, che assicura più vendite
L’inclusività, purtroppo, è spesso solo una facciata. Le campagne pubblicitarie che mostrano corpi “diversi” lo fanno più per convenienza che per convinzione. E solo perché oggi l’idea di inclusività vende. Alcuni brand si sono impegnati più di altri a trasmettere un messaggio diverso. La campagna Dove “The Real Beauty” del 2004 fu un successo, mostrando donne vere con corpi normali. Come il brand “Fenty” di Rihanna, noto per le sue sfilate inclusive con modelli e modelle di ogni forma e dimensione. Ma la maggior parte dei marchi continua a usare una modella “curvy” ogni venti filiformi o produce taglie che non superano la 48. Questo non è essere inclusivi: è dare un contentino a un trend che, purtroppo, sembra già in declino. Dopo un breve periodo in cui alcuni brand sembravano aver compreso l’importanza della rappresentazione, il ritorno alla magrezza estrema è stato inevitabile. Sempre in nome del dio Denaro.