venerdì, 7 Febbraio, 2025
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Musica

“Minooor”: Mohsen Namjoo all’Accademia Filarmonica Romana

Alla Sala Casella dell’Accademia Filarmonica Romana un'unica tappa nel nostro Paese del nuovo tour dell’artista iraniano. Perfomance e musica a favore della libertà del popolo iraniano

Il 3 febbraio scorso l’artista e performer iraniano Mohsen Namjoo ha presentato il suo ultimo lavoro, “Minooor”, una esperienza per lo spettatore artisticamente stimolante e politicamente istruttiva.

Nato nel 1976 Mohsen Namjoo è una figura emblematica della scena musicale iraniana contemporanea, per la sua capacità di fondere elementi della musica tradizionale persiana con generi moderni come il rock e il blues. Dopo la rivoluzione islamica del 1979, il regime komehinista ha imposto severe restrizioni sulla produzione e diffusione musicale, in particolare verso generi occidentali o considerati non conformi ai valori islamici. In questo contesto repressivo, Namjoo è emerso come una voce ribelle, utilizzando la sua musica per esprimere critiche sociali e politiche. La sua abilità nel combinare testi poetici con melodie innovative gli ha valso il soprannome, forse in realtà riduttivo, di “Bob Dylan iraniano”. Nel 2008, a causa delle sue posizioni critiche nei confronti del regime islamico, Namjoo ha scelto l’esilio, stabilendosi tra gli Stati Uniti e l’Europa, senza più tornare in Iran, dove è stato condannato a cinque anni di carcere per aver disonorato il Corano attraverso la sua musica.

Il performer Mohsen Namjoo - foto di Atasilent
Il performer Mohsen Namjoo – foto di Atasilent

Ma definire musica il suo spettacolo non rende giustizia alla dimensione performativa e intermediale del lavoro di Namjoo. Per tutta la prima ora della performance, infatti, non tocca neanche i due sitar poggiati accanto a lui. Quando le luci si abbassano, l’artista si presenta sulla scena urlando con voce acuta. È un uomo spettinato con piccoli occhiali da sole poggiati sul naso. Alla destra del palco, di fronte a un microfono, mentre alcune immagini delle violenze del regime iraniano scorrono sullo schermo intervallate da scene d’archivio di sigle di cartoni giapponesi, telenovelas d’epoca, etc., con l’accompagnamento sonoro dalle casse, recita, canta, o meglio “performa” una serie di poesie. Talvolta il tono è ironico, talvolta triste.

Difficile per chi non conosca l’iraniano cogliere in maniera approfondita i numerosi riferimenti alla situazione politica iraniana attuale e alla rivoluzione. Ciononostante, l’ensemble di suoni, parole, musiche trasmette potenza ed emozioni forti come quando sullo schermo scorrono immagini di uomini, donne, bambini e Namjoo chiama per nome tutti gli iraniani, elencando le loro professioni e invitandoli a ribellarsi. Segue una serie di invocazioni ed epiteti che nella cultura musulmana richiamano la bellezza di Dio e del creato. “In nome di tutta questa bellezza – accusa l’artista – voi state trucidando il nostro popolo”.

Inevitabile la commozione delle persone iraniane presenti in sala. Ai contenuti si affianca la padronanza che l’artista dimostra nell’uso del proprio mezzo espressivo: il corpo. I gesti, le espressioni, il tono e persino il timbro della voce, che cambia repentinamente, fanno pensare ad altri performer geniali del calibro di Jaap Blonk o Augusto de Campos. Quel che distingue Namjoo è il fatto che non solo incarna, in alcuni aspetti, il poeta-performer “difficile”, che piace agli appassionati del genere, ma allo stesso tempo ricopre il ruolo storico e identitario del poeta antico dei popoli dominati da un potere repressivo. In altri termini, quel che davvero affascina e provoca una reazione, anche in un profano di cultura e politica iraniana contemporanea, è il fatto che attraverso la performance l’artista fa qualcosa di antichissimo e perennemente umano: crea un’esperienza collettiva, ovvero Cultura.

Ne è una riprova inopinabile la reazione entusiasta del pubblico, che rideva, batteva le mani, urlava, cantava insieme e partecipava integralmente all’evento. A volte è stato lo stesso performer a coinvolgere il pubblico chiedendo di battere ritmicamente le mani sulle note di una musica. Una volta cominciata la declamazione del suo testo, si percuoteva il petto allo stesso ritmo, dando l’impressione che fosse l’intero pubblico a colpirlo, facendosi carico della violenza e della sofferenza del suo popolo. Da vero poeta.

Viene da pensare agli studi di Paul Zumthor, grande medievista che si dedicò, il secolo scorso, allo studio di tutta quella parte che le facoltà di letteratura, specialmente europee, tendono sempre a ignorare ossia la letteratura orale e l’importanza identitaria del ruolo che svolgeva nelle comunità europee prima che diventassero società “scritte”. Zumthor insiste sul fatto che quella che lui chiama “letteratura orale” sia soprattutto un’esperienza collettiva. La performance è sempre unica, legata necessariamente al tempo presente della performance stessa, e al tempo storico dell’artista e della sua comunità. In questo senso è sempre politica e richiede la condivisione del pubblico. Proprio come nello spettacolo di Namjoo.

È qui che si concentra l’arte e il suo scopo. Per mandare un messaggio basta la lingua, per veicolare un sentimento ci vuole ben altro. Tutto il corpo, tutto il potere della voce e delle immagini.

Una anteprima della performance: Concert Promo | Oct 5, 2024 | #Minooor

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