mercoledì, 24 Aprile, 2024
Il Cittadino

Fuori sede

Esplode in tutta Italia la protesta degli studenti fuori sede per il caro affitti. Una protesta resa visibile a tutti – e particolarmente adatta al mezzo televisivo ed ai social – dalle numerose tendopoli sorte alle porte degli Atenei, a partire dal Politecnico di Milano, al Piazzale della Minerva alla Sapienza di Roma, all’ingresso delle Università di Bologna e di Firenze in pieno centro cittadino e così via: un fenomeno che si è esteso ovunque.

E che, ovviamente, la “politica” ha cercato di strumentalizzare: ma sarebbe più appropriato non usare quel termine perché, copio a mani basse dal dizionario Treccani: «polìtica s. f. [femm. sostantivato dell’agg. politico (sottint. arte); cfr. gr. πολιτική (τέχνη)]. – 1. a. La scienza e l’arte di governare, cioè la teoria e la pratica che hanno per oggetto la costituzione, l’organizzazione, l’amministrazione dello stato e la direzione della vita pubblica; le norme, i principî, le regole della p. (…)  Più concretam., l’attività svolta per il governo di uno stato, il modo di governare, l’insieme dei provvedimenti con cui si cerca di raggiungere determinati fini». Quindi non che la “politica” (arte nobile, quasi sconosciuta in questa epoca storica dove si tende soltanto alla ricerca del consenso), ma che la propaganda partitica ha cercato di strumentalizzare.

Abbiamo assistito – stiamo assistendo – così ad un dibattito fatto di luoghi comuni, di slogan, di rivendicazioni che mi fanno tornare agli anni Settanta, quelli del mio essere “studente fuori sede”.

I partiti, quindi, rivendicano, come si faceva allora, il diritto allo studio, il diritto alla casa; manca il diciotto politico, ma poco ci manca (consentitemi sul punto una digressione dal tema: la genesi dell’abrogazione del merito nella p.a. dove le qualità individuali vengono umiliate da una inesistente parità: argomento, comunque, su cui torneremo più avanti).

Insomma una serie di luoghi comuni che prescindono da una mutata situazione storica e sociale, da differenti esigenze, e dalle diverse richieste del mercato del lavoro dei laureati: perché di tale mercato si dovrebbe parlare quando si tratta di studenti universitari.

La situazione rispetto agli anni settanta in cui ero studente fuori sede è radicalmente mutata.

Sapete che sono intellettualmente onesto. Quindi non vi dirò disagiato, perché non lo ero: non mi sono mai mancate le mille lire per la pizzeria o le seicento lire per il cinema.

Ma, almeno finché mia sorella non mi raggiunse a Roma e prendemmo un appartamentino in affitto, ho vissuto l’esperienza degli affittacamere per studenti nella zona di Viale Ippocrate, vicina alla Sapienza: ne avrò cambiati una decina, passando da uno squallore all’altro, ad una che aveva sigillato i rubinetti dell’acqua calda (tranne quello del suo bagno personale: cinquecento lire per farsi la doccia), alla camera in un appartamento all’ottavo piano, con ascensore rigorosamente funzionante con le 10 lire. Spesso, specie dopo le sere di baldoria con gli amici, in cui più forte era il bisogno, non le avevo: ed il rientro si trasformava in una faticosa scalata.

Ma a quei tempi il mercato era meno esoso, certamente non regolato. L’affitto di una camera ad uno studente nel proprio appartamento era un affare privato, tra signora padrona di casa e studente; lo Stato ne rimaneva fuori: nessun contratto da registrare, certamente nessuna tassa. Economia sommersa, certo; ma erano tempi diversi; lo scontrino fiscale sarebbe stato introdotto solo nel 1983.

Oggi la legge di mercato e la necessaria e giusta soggezione all’erario di qualsiasi rapporto tra privati, fa aumentare il costo per l’utente. Se vicino alla Sapienza c’è una forte richiesta di alloggi e di camere in affitto i prezzi inevitabilmente lieviteranno.

I rimedi da slogan rimarranno solamente promesse, utili a far guadagnare qualche voto, così come le proposte di costruire 120.000 alloggi: gli studenti che oggi hanno bisogno di una casa, faranno in tempo ad invecchiare.

Paradossalmente ritengo che l’unico rimedio sarebbe quello di tornare al modello anni ’70. Con un semplice decreto, per affrontare l’emergenza alloggi, si potrebbero detassare completamente gli affitti annui a favore degli studenti fuori sede (ma anche di operai e famiglie meno abbienti), stabilendo un tetto per metro quadro. Nessun appalto, nessuna gara, nessun “esproprio” di proprietà privata, perché il possessore di un appartamento sarebbe libero di scegliere. Soluzione troppo semplice, immediata, ma che non farebbe guadagnare nessuno (e forse per questo potrebbe trovare la resistenza dei burocrati che certamente stabilirebbero un regolamento di requisiti necessari, per non perdere il potere negoziale di inibire qualsiasi cosa).

Io mi schiero apertamente dalla parte degli studenti. Vorrei anzi essere uno di loro. Mi scandalizzerei – come mi scandalizzo – delle tasse universitarie, oggi neppure paragonabili a quelle, veramente minime, che pagava mio padre per me: tasse destinate ad aumentare.

Eppure a quell’epoca la scuola pubblica prevaleva nettamente su quella privata.

Il che ci porta all’attualità del diritto allo Studio..

L’Italia è uno degli ultimi Paesi del mondo industrializzato che mantiene la parità della Laurea: il dottore in economia dell’ultima università italiana (la “telematica vattelappesca”, per esempio) e il dottore in economia della Bocconi o della Luiss sono la stessa cosa. Ma non per l’impresa privata che sceglie proprio e soprattutto in base a criteri di merito e di preparazione: criteri scientifici, con valutazioni psicologiche e motivazionali; diversi e lontani dalle lotterie e manovre di un concorso.

Così che c’è un mercato primario riservato a laureati di Harvard o della London School of Economics  o Bocconiani e giù di lì. All’estero (occidentale) l’istruzione si pagà; in una università pubblica USA la tassa universitaria è di circa US $ 30.000,00 l’anno: lo Stato, con un regolare contratto, presta i soldi agli studenti per pagarla, vi sono molte borse di studio basate sul merito. E, quasi sempre, un campus smisurato.

Non può essere la via italiana. Eppure il problema degli studenti “fuori sede” potrebbe essere l’opportunità, per una vera soluzione politica, piuttosto che per speculazioni partitiche.

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