sabato, 27 Aprile, 2024
Esteri

Il Cremlino e la “guerra di veleni”

Il 4 gennaio si sono svolte manifestazioni e picchetti presso i consolati e le ambasciate della Georgia a New York, Washington, Londra, Berlino, Monaco, Francoforte, Vienna, Bruxelles, Strasburgo, L’Aia, Praga, Stoccolma, Berna, Sofia, Barcellona, Atene e Tel Aviv. Scopo dell’azione internazionale #SaveMisha, tenuta contemporaneamente in 14 Paesi del mondo, è stato quello di chiedere a gran voce il rilascio per “motivi umanitari” dell’ex presidente georgiano Mikheil Saakashvili.

I manifestanti hanno accolto l’appello dell’avvocato Dito Sadzaglishvili, il quale aveva spiegato che la salvezza di Saakashvili può venire soltanto dall’estero, considerando che l’attuale presidente georgiana, Salome Zurabishvili, si muove esclusivamente in base alle indicazioni del Cremlino.

A inizio dicembre, il protagonista della “Rivoluzione delle rose” del 2004 è stato avvelenato durante la sua detenzione. Sono state ritrovate nel suo corpo tracce di mercurio e arsenico. La notizia ha fatto il giro del mondo in pochissimo tempo.

L’ex presidente georgiano è sempre stato considerato da Putin un soggetto scomodo per aver ostacolato le mire espansionistiche di Mosca.

Anche il Parlamento europeo si è occupato della grave situazione di Saakashvili, che peraltro potrebbe costituire un ostacolo significativo alla candidatura della Georgia all’Unione Europea. Il 14 dicembre Bruxelles ha approvato una risoluzione, con cui ne ha chiesto il rilascio per “motivi umanitari”. Del resto, l’avvelenamento di Mikheil Saakashvili è purtroppo solo l’ultimo di una lunga serie.

La maggior parte delle operazioni speciali, specie quelle che violano il diritto internazionale, rimangono nel campo della cosiddetta “negazione plausibile”, ossia la prassi per cui i principali sospettati non confermano e non smentiscono il loro coinvolgimento. In altre occasioni però è come se gli autori dell’operazione volessero quasi lasciare una firma e affermare alla luce del sole: “Vedete? siamo stati noi”. Un messaggio rivolto ai nemici e al resto del mondo per affermare la propria “superiorità”.

Era il 20 agosto 2020, quando Alexei Navalny, il leader dell’opposizione russa, collassò mentre si trovava su un aereo partito dalla città di Tomsk, in Siberia, diretto a Mosca. L’aereo fu fatto atterrare nella città più vicina, Omsk, dove Navalny venne ricoverato in terapia intensiva. I medici dell’ospedale dissero inizialmente di non aver trovato segni di avvelenamento. Dopo un paio di giorni di tensione, le autorità russe consentirono di trasferire Navalny all’ospedale Charité di Berlino. Lì i medici scoprirono che Navalny era stato avvelenato con un agente nervino, il Novichok, cosa poi confermata da altri laboratori indipendenti e dall’Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche. Una dettagliata inchiesta condotta successivamente dimostrò il coinvolgimento del FSB – l’agenzia di sicurezza dello stato russo, successore del KGB. Ancora oggi il principale oppositore di Putin, sopravvissuto al Novichok, è detenuto in un carcere a regime severo in Russia.

La Russia di Vladimir Putin, però, colpisce i suoi nemici anche all’estero. Nel pomeriggio del 4 marzo del 2018, la cittadina di Salisbury in Inghilterra si ritrova al centro di una guerra segreta combattuta a colpi di veleno con il tentativo di uccidere Sergey e Yulia Skripal.

Sergey Skripal, 67 anni, non è solo un ex funzionario dei servizi segreti russi e anche un ex agente doppiogiochista che per 9 anni, dal 1995 al 2004, con il nome in codice “Forthwith” ha collaborato con i servizi segreti britannici, finché i russi non lo hanno scoperto ed arrestato con le accuse di spionaggio ed alto tradimento. Al centro di un accordo per lo scambio di prigionieri, era tornato libero e si era definitivamente trasferito nel Regno Unito. Ma il Cremlino, è risaputo, non perdona.

Il 12 marzo, 8 giorni dopo l’attentato, il primo ministro Theresa May riferisce al Parlamento britannico. Conferma il nome del veleno impiegato e passa all’attacco contro Mosca. “È stato stabilito che il signor Skripal e sua figlia sono stati avvelenati – dice la Premier May – con un agente nervino di impiego militare del tipo di quelli sviluppati dalla Russia. La sostanza fa parte di un gruppo di agenti nervini conosciuti come Novichok. Basandosi sulla identificazione di questa sostanza, condotta dagli esperti di livello mondiale del Defence Science and Technology Laboratory (Dstl) di Porton Down e sulle nostre informazioni, secondo le quali la Russia ha già prodotto questo agente e, considerati anche i precedenti della Russia in materia di omicidi mirati condotti su ordine del governo, è nostra opinione che la Russia consideri alcuni fuggitivi come obiettivi legittimi da eliminare.  Il governo ha quindi concluso che è molto probabile che la Russia sia responsabile del tentativo di uccidere Sergey e Yulia Skripal. Ci sono solo due spiegazioni possibili per quello che è successo il 4 marzo a Salisbury. O si tratta di un attacco diretto dello Stato russo contro il nostro Paese, oppure il governo russo ha perso il controllo delle sue armi chimiche potenzialmente devastanti ed ha permesso che cadessero nelle mani di altri.  Questo pomeriggio il Segretario agli Esteri ha convocato l’Ambasciatore russo per sapere quale di queste due ipotesi si sia verificata”.

A settembre, dopo mesi di indagini, Theresa May riferisce – durante una convulsa seduta in Parlamento – che i sospettati sono due cittadini russi che viaggiavano nel Regno Unito con passaporti falsi intestati ad Alexander Petrov e Ruslan Boshirov. Dietro queste identità di copertura si nascondono Alexander Mishkin e Anatoly Chepiga, due uomini del GRU, il servizio militare russo.

Sia MI6 che Scotland Yard non hanno dubbi. I due agenti hanno seguito Yulia Skripal fin da Mosca. Hanno effettuato sopralluoghi sui luoghi frequentati la Sergey Skripal e alla fine hanno contaminato con il Novichok, nascosto in una boccetta di profumo, la porta della casa dell’ex agente russo.

Solo lo scorso mese, un altro caso si è definitivamente concluso. Sono, infatti, scaduti i tre mesi necessari per far divenire definitiva la sentenza di condanna emessa dalla Corte europea dei diritti umani (CEDU) contro la Russia, riconosciuta responsabile dell’assassinio dell’ex agente russo Aleksander Litvinenko. L’ex agente dei servizi di intelligence russi venne avvelenato con il Polonio nel 2006 a Londra dopo aver ricevuto asilo nel Regno Unito.

Nel 2002, Litvinenko aveva pubblicato un libro, dal titolo “Blowing up Russia: Terror From Within”, in cui accusava gli agenti del FSB di essere i veri responsabili della serie di attentati esplosivi occorsi in Russia tra l’agosto e il settembre del 1999 che fecero più di trecento vittime. Gli attentati, ufficialmente attribuiti ai separatisti ceceni, sarebbero stati realizzati per giustificare la ripresa delle operazioni militari russe in Cecenia. In un suo libro successivo, “Gang from Lubyanka”, Litvinenko accusa Putin di esserne il mandante.

La vendetta russa è però un piatto che spesso viene servito freddo, e così – dopo quattro anni – Litvinenko venne assassinato. I giudici di Strasburgo hanno stabilito nel 2022 che gli esecutori materiali dell’omicidio di Litvinenko “abbiano agito come agenti dello Stato russo”.

Il Novichok continua ad essere impiegato contro i nemici di Vladimir Putin. Tracce del veleno sono state trovate anche tra gli abiti di alcuni esponenti della delegazione ucraina che si era recata in una località al confine con la Bielorussia per i negoziati di pace con i russi, il 3 marzo 2022. L’invasione dell’Ucraina era iniziata da appena una settimana, ma la guerra del Novichok era cominciata molto prima. Una guerra “invisibile” che è prevedibile durerà ancora a lungo, perché lunga è la lista dei nemici del Cremlino.

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