Il governo thailandese ha dichiarato la legge marziale in otto distretti frontalieri con la Cambogia, in risposta a una drammatica escalation militare che ha già causato oltre 15 morti e l’evacuazione di 138.000 civili. Il provvedimento, entrato in vigore il 25 luglio, riguarda sette distretti della provincia di Chanthaburi e uno di Trat. La decisione è arrivata dopo due giorni di intensi scontri lungo il confine, in particolare nei pressi del tempio Khmer di Ta Muen Thom. Le forze armate thailandesi hanno denunciato attacchi con missili e bombe a grappolo, mentre Phnom Penh accusa Bangkok di aver violato il diritto internazionale. L’esercito thailandese ha diffuso un video che mostra l’uso di droni per colpire un deposito di armi cambogiano. Il primo ministro ad interim, Phumtham Wechayachai, ha avvertito che “la situazione potrebbe degenerare in una guerra aperta”. A complicare il quadro, l’ex premier cambogiano Hun Sen ha pubblicato — e poi rimosso — una foto che lo ritraeva mentre esaminava mappe militari, alimentando sospetti sul coinvolgimento diretto nella crisi. La tensione ha radici storiche: la disputa sul tempio di Preah Vihear e le frizioni tra le famiglie al potere nei due Paesi hanno riacceso un conflitto mai del tutto sopito. La caduta della premier thailandese Paetongtarn Shinawatra, accusata di eccessiva vicinanza a Hun Sen, ha ulteriormente polarizzato lo scenario. La comunità internazionale osserva con crescente preoccupazione. Il premier malaysiano Anwar Ibrahim ha invocato un cessate il fuoco immediato, mentre la Cina ha attribuito la crisi alle “persistenti eredità del colonialismo occidentale”. La legge marziale imposta da Bangkok è una misura estrema che riflette la gravità della situazione. Il rischio di un conflitto regionale è reale, e la diplomazia è chiamata a intervenire prima che la crisi sfugga al controllo.
