giovedì, 23 Gennaio, 2025
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La “Crocifissione Bianca” di Marc Chagall, il dolore dei martiri di tutto il mondo

Visitabile fino al 27 gennaio 2025, l’esposizione “Chagall a Roma: la Crocifissione Bianca”, organizzata presso il Museo del Corso capitolino, a Palazzo Cipolla, è stato ideato dal Dicastero per l’Evangelizzazione, Sezione per le questioni fondamentali dell’evangelizzazione nel mondo, in collaborazione con la Fondazione Roma, nell’ambito degli eventi d’arte che accompagnano il Giubileo 2025

Direttamente dall’Art Institute of Chicago, è arrivata nella Capitale la “Crocifissione Bianca” del pittore di origini russe Marc Chagall, che a distanza di quasi novant’anni sa ancora parlare alla contemporaneità. Dipinto nel 1938, pochi giorni dopo la tragica Notte dei Cristalli, la tela è un inno, anzi una preghiera rivolta ai sofferenti di tutto il mondo. Riprendendo le icone sacre della sua terra natìa, Vitebsk, un villaggio situato nell’attuale Bielorussia, Chagall realizza quella che lui stesso definisce “l’icona del secolo nel quale si sono concentrate le massime follie della Storia, il Ventesimo”. Appellandosi al suo stile magico e infantile, impregnato di tradizione popolare ebraica e di influenze derivanti dal Cubismo e dal Fauvismo, Chagall si ricollega in questo caso a una tradizione pittorica che risale addirittura a prima di Goya, quando scene della Passione di Cristo venivano usate in quadri di denuncia di guerre sanguinose.

Non è escluso, poi, che la scelta del pittore naturalizzato francese si rifaccia agli studi ebraici di fine ‘800 volti a rivalutare la figura del Redentore, trovandovi solidi legami con il Giudaismo. Non a caso l’artista dichiarerà: “Per me, Cristo ha sempre rappresentato il vero tipo del martire ebreo”. In questo ritroviamo l’universalità del Gesù di Chagall, un’icona senza tempo che unisce i popoli e le loro divergenze ideologiche, un segno di pace che in tempi di guerra diventa meta di chi è perseguitato. Sotto l’egida di un Gesù che muore indossando un tallit, il tipico scialle usato dagli ebrei durante la preghiera, si raccolgono, dunque, le lamentazioni dei Patriarchi, ma anche degli umili le cui case sono state incendiate e spazzate via dall’odio dei loro fratelli.

Nella gioia dei colori saturi e delle forme semplici, tipiche del pittore, si nasconde l’urlo di un’umanità che periodicamente sprofonda nel baratro. In un momento in cui si teme il ritorno di un cataclisma militare, la poesia di un artista che ha vissuto da vicino il massacro di tanti ebrei sfonda le pareti dell’odio per chiedere una tregua che sia senza fine, nel nome di tutta l’umanità. Il Ventesimo secolo non deve ripetersi. Solo così “I fuggiaschi e le zattere hanno un altrove in cui sperare”, sono le parole dell’artista.

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