giovedì, 9 Maggio, 2024
Economia e non solo

Adam Smith e la grande società

Sono trascorsi trecento anni dalla nascita di Adam Smith. La figura dello studioso scozzese è stata ricordata alla LUISS Guido Carli, lo scorso 5 giugno, da Lorenzo Infantino, professore di Filosofia delle Scienze Sociali, che ha dedicato lunghi anni di riflessione alla cultura anglo-austriaca e i cui libri sono stati tradotti in varie lingue. Abbiamo rivolto al professor Infantino alcune domande.

L’economia di mercato ha battuto l’economia pianificata e ha consentito anche a un sistema a partito unico come quello cinese di voltare le spalle al suo sottosviluppo. Ma non gode di buona stampa: vince ma è trattata come se fosse il male. Perché succede questo?

La sua domanda si può dividere in due parti. La prima riguarda la ragione per la quale l’economia di mercato consente di raggiungere risultati superiori a quelli prodotti dall’economia pianificata. La seconda parte pone la questione relativa alla ragione per cui il mercato viene considerato un male. Credo che, dietro tutto ciò, ci sia un unico perché. L’economia di mercato è basata sulla libertà individuale di scelta. Il che consente a ciascuno di mobilitare le proprie conoscenze e le proprie risorse. Come Smith e coloro che hanno raccolto il suo insegnamento hanno spiegato, il mercato ospita in tal modo un permanente processo di esplorazione dell’ignoto e di correzione degli errori, di cui nessuno può sapere in anticipo il risultato e che tende a selezionare le soluzioni al momento più vantaggiose. L’economia pianificata utilizza invece la sola conoscenza del decisore unico o dei pochi individui che fanno parte del ristretto gruppo dei decisori. Oltre che dall’impossibilità di mobilitare individualmente le risorse, la sua inferiorità economica discende pertanto dalla limitatezza delle conoscenze di cui può disporre.  Se non si tiene conto di ciò, non si può capire quale sia la funzione svolta dal mercato. Ed è questo il primo e insuperato ostacolo di coloro che nel sistema competitivo vedono il male.   

Le teorie di Adam Smith sono considerate, da studiosi approssimativi e da politici di scarse letture, una sorta di elogio del cinismo della ricchezza fine a se stessa e dell’individualismo spietato che sacrifica i valori sociali sull’altare dell’arricchimento. Cosa penserebbe Adam Smith di queste critiche?

Ciò mi permette di completare quanto ho affermato nella risposta alla sua precedente domanda. Ribadisco che, dietro il giudizio negativo espresso sull’economia di mercato, c’è anzitutto la mancata comprensione del processo di mobilitazione delle conoscenze e di correzione degli errori, reso possibile dal sistema economico di cui beneficiamo. Al che bisogna aggiungere altri elementi. Ossia: si perde sovente di vista il fatto che la dimensione economica della vita nasce dalla scarsità, che è la condizione umana. Non è un prodotto della società di mercato. E lo stesso desiderio di ricchezza ci preesiste; non è una creazione delle nostre istituzioni economiche. Quanto poi all’«individualismo spietato», occorre mettersi d’accordo con se stessi. Se si vuole la libertà di scelta, è necessario consentire alle energie individuali di esprimersi. E non bisogna commettere l’errore di uguagliare l’individualismo all’egoismo e il collettivismo all’altruismo. È questa l’ingenuità in cui spesso si cade e che spinge, fra l’altro, a trascurare che la cooperazione volontaria, la quale ha come suo habitat normativo il «governo della legge», impone a ciascuno di noi di fare sempre qualcosa per gli altri, pena l’impossibile raggiungimento dei nostri fini. La lezione tramandataci al riguardo da Smith è esemplare.

Una delle critiche più frequenti all’economia di mercato è che essa genera inevitabilmente diseguaglianze, ingiustizie sociali e non garantisce una equa distribuzione della “ricchezza delle nazioni”. Ma è proprio così?

Porsi come scopo una distribuzione egualitaria della ricchezza comporta la necessità di sopprimere il processo competitivo o di manometterlo in maniera decisiva. Le rispondo con un’idea che si usa spesso nell’insegnamento e che Michael Walzer ha recentemente espresso nei seguenti termini: «La disuguaglianza è una costante, che si rinnova di continuo, di ogni società umana […,] anche se immaginassimo un’uguaglianza originaria, questa non potrebbe essere mantenuta. Distribuite in parti uguali il denaro una domenica e la settimana dopo sarà redistribuito in modo diseguale. L’intelligenza, la forza, l’ingegno, l’energia, la popolarità e la fortuna individuali determinano una posizione disuguale nell’economia e nella società. Soltanto il potere coercitivo dello Stato, esercitato in modo coerente e puntuale, può mantenere la parità». Ma il punto è che ciò non è compatibile con la libertà individuale di scelta. Ed è qualcosa che avrebbe conseguenze irreparabili sulla vita individuale e collettiva, perché colpirebbe la motivazione personale, la responsabilità di ciascuno, il processo di mobilitazione delle conoscenze e delle risorse, la nostra concezione del diritto, la separazione dei poteri e la produttività. Occorre pertanto seguire una diversa strada, quella imboccata dalla Grande Società: continuando a garantire la libertà di scelta, si può intervenire a favore di chi, per le più diverse circostanze della vita, si trovi in posizione di disagio. E ciò può essere fatto con una quantità di risorse che nessuna società del passato ha mai destinato a tale fine.

A proposito di Walzer, proprio nel saggio su Che cosa significa essere liberale ipotizza una forma di liberalismo che si mescola – migliorandole – a varie tradizioni culturali: socialismo, democratismo, comunitarismo, femminismo, e via dicendo. Insomma, liberale diventa un aggettivo e non più un sistema strutturato e omogeneo di valori e comportamenti pubblici.

L’esposizione di Walzer produce un’illusione ottica. Sembra che egli si prefigga lo scopo di giungere a una situazione in cui tutte le scelte politiche, quali che siano, debbano essere sempre articolate in forma liberale. Ma non è così. Si rifà a Eduard Bernstein e a Carlo Rosselli, i quali hanno cercato di coniugare il socialismo con il liberalismo. Va anche oltre. Dichiara di non comprendere la critica al consumismo, perché non c’è nulla di «sbagliato nel fare acquisti» o nel «desiderare cose belle». Ma giunge nel contempo a sostenere che, «date le disuguaglianze» che esso produce, non può esistere un mercato liberale; ritiene che solamente un mercato «sottoposto a forti vincoli democratici e socialdemocratici potrebbe legittimamente meritare» quell’aggettivo. E si spinge ad affermare che, a causa del suo «individualismo radicale», il liberalismo classico non può essere considerato liberale.

Tutto ciò mostra che, nell’esposizione di Walzer, ci sono delle palesi contraddizioni. C’è inoltre la fallace pretesa che un mercato orientato politicamente possa essere liberale. E c’è, quando si pone sotto accusa l’individualismo, una vera e propria alterazione della realtà, che impedisce di comprendere che la libertà di scelta, esercitata non solo sul mercato dei beni e dei servizi, ha come sua insostituibile base il «governo della legge». La posizione di Walzer fa venire in mente quanto, a proposito del liberalismo, e non senza ragione, Joseph A. Schumpeter ha scritto negli anni Cinquanta del secolo scorso: «come supremo elogio, sia pure involontario, i nemici del sistema dell’iniziativa privata hanno ritenuto opportuno appropriarsi della sua insegna».   

Stiamo assistendo a una sorta di anticapitalismo di ritorno che prospera un po’ ovunque. Non solo tra i nostalgici del populismo di stile peronista, tra massimalisti e demagoghi in cerca di consensi facili, ma anche in larghi strati della cultura politica europea e americana. È una regressione culturale o che altro?

Accade spesso che gli eredi agiscano contro il lascito, intellettuale e materiale, delle generazioni che li hanno preceduti; e agiscano anche contro le ragioni che hanno reso possibile quel lascito. Il che si può interpretare come una manifestazione di ingratitudine. Ma c’è qualcosa di più profondo. C’è quella che Michel de Montaigne chiamava «presunzione di conoscere», che conduce a vedere nel passato solamente una costellazione di errori e, per di più, di errori volontari. Di qui il convincimento che si possa fare piazza pulita di quel che esiste e si possa ricostruire la civiltà a partire dalla tabula rasa. E tuttavia, ogni volta che esperimenti del genere hanno avuto luogo, sappiamo quali disastrosi esiti hanno avuto. Il fatto è che gli esseri umani non possiedono la «verità manifesta», né si sottraggono intenzionalmente a essa. Poiché sono tutti accomunati dalla condizione di ignoranza e fallibilità, procedono, e non potrebbe essere diversamente, attraverso la continua correzione dei loro errori. Il che è quanto Smith aveva esattamente compreso.

I princìpi fissati da Adam Smith da oltre due secoli e mezzo nelle sue opere principali (Teoria dei sentimenti morali e La ricchezza delle nazioni) resistono alle tante rivoluzioni tecnologiche, sociali, politiche e culturali che si sono succedute. Qual è in fondo la loro forza principale?

Smith ha portato al più elevato livello di elaborazione la teoria a cui hanno fortemente contribuito Bernard de Mandeville, David Hume e Charles-Louis de Montesquieu: quella che stata definita la «più grande scoperta del genere umano». È l’idea di poter vivere insieme pacificamente, con vantaggio reciproco, senza dover sottostare a una gerarchia comune di fini obbligatori. Si scambiano volontariamente i mezzi, ma i piani individuali vengono autonomamente formulati. I confini fra le azioni sono delimitati dalle norme del diritto, che non prescrivono quel che ciascuno deve fare, ma semplicemente ciò che dobbiamo astenerci dal fare. Come dire che lo scambio volontario dei mezzi va di pari passo con la cooperazione a finalità altrui che non conosciamo e che, se conoscessimo, potremmo non condividere. È pertanto una cooperazione di carattere inintenzionale.

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