venerdì, 29 Marzo, 2024
Il Cittadino

Borghesia mafiosa 1928-2023

L’arresto, dopo trent’anni di latitanza, di Matteo Messina Denaro – o meglio: il can-can mediatico seguito all’arresto del super latitante – merita una meditazione.

Dichiaro subito – e non ne parlo più dopo – la mia personale irritazione per il suo non essere stato ammanettato: fin dalle prime riprese TV mi è tornata in mente l’immagine del martire Enzo Tortora, con la faccia smarrita e sgomenta, mostrato in catene ai giornalisti convocati in massa davanti all’Hotel Plaza (per i giovani e giovanissimi: era il 1983, cercate e leggete la sua storia e tremate davanti al più terribile dei poteri).

Non posso non annotare, invece, che il suo arresto ha ridato ancora più forza alla voce dei giustizialisti e alle resistenze delle associazioni dei magistrati (mi riferisco sempre ad esse e non alla magistratura nel suo complesso, perché nella mia vita ne ho incontrati moltissimi, addirittura più garantisti di me). Giustizialisti che, all’evidenza, aprioristicamente si ritengono esseri umani senza le debolezze degli uomini comuni come me; perciò si reputano certamente indenni da qualsiasi reato, anche solamente colposo: quindi pronti a rinunciare alle garanzie di legge o a scontare la pena prima della condanna, che qualche volta (sempre più spesso negli ultimi tempi: si veda l’impressionante numero di condanne al risarcimento per ingiusta detenzione comminate allo Stato Italiano) non arriva.

Credo che ci sia una grossa verità nell’affermazione «la sicurezza del potere si fonda sull’insicurezza dei cittadini»(Leonardo Sciascia, “Il cavaliere e la morte”, 1988). “Sicurezza del potere” che si addice ad un regime assolutista, ma non ad uno Stato di diritto, dove si confida che il giudice di Berlino – che immagino minuto e solitario – abbia la forza e la coscienza di assolvere un povero mugnaio che il Sire voleva eliminare. «Io sono innocente. Spero dal profondo del cuore che lo siate anche voi», disse Enzo Tortora; ci mise un po’ di tempo, ma poi trovò il suo giudice di Berlino, ma era ormai tardi e la sua vita già distrutta.

Matteo Messina Denaro è stato arrestato in una clinica, ed ha trascorso i trent’anni di latitanza nei suoi luoghi natii, vicino alla sua casa famigliare, ovviamente contando su appoggi: da qui la “scoperta”, urlata a gran voce, della necessaria connivenza di una parte di quella società, immediatamente definita, dagli inquirenti e dai massmediologi, “borghesia mafiosa”.

Non si tratta, però, di una scoperta. I rapporti tra mafia e potere politico-burocratico sono già stati denunciati a suo tempo da Falcone soprattutto e costituiscono nell’attualità uno dei fili conduttori del Procuratore Nicola Gratteri, ampiamente narrati nei suoi libri.

Ma ci sono addirittura precedenti antichi riferiti ad una mafia definita “agricola” e (a torto) degli “uomini d’onore”. Ne parlò Salvemini con riferimento alla Puglia, ma soprattutto un mio avo collaterale, Roberto Marvasi (Napoli, 1863-1955), già in un suo libro del 1914 “Così parlò Fabroni”, dove, in relazione ad un clamoroso caso giudiziario dell’epoca (il processo Cuocolo, primo maxi-processo della storia giudiziaria italiana) aveva sostenuto che «la Magistratura diede un colpo al cerchio, rinviando i camorristi, ed uno alla botte, traendo a salvamento i loro diversi complici della politica, della Amministrazione e dello stesso potere giudiziario».

Tesi ampiamente ripresa più approfonditamente nel 1928, con la pubblicazione a Marsiglia (Roberto Marvasi, tra i fondatori del Partito Socialista in Italia ed amico personale di Benito Mussolini si era opposto al fascismo e si rifugiò in Francia per sfuggire alle persecuzioni fasciste), del libro “Malavita contro malavita”, sul tema della diffusione della criminalità nel Meridione d’Italia negli anni immediatamente successivi alla repressione del Brigantaggio e sull’uso politico che i governi post-unitari fecero di camorristi e mafiosi.

Roberto Marvasi

La tesi sostenuta non si allontana dal pensiero attuale: la corruzione nella politica e nella pubblica amministrazione, gli scandali, il trasformismo parlamentare sono stati sistematicamente coperti mediante una facciata di perbenismo. Una copertura che, con riferimento al ventennio fascista – paventando il pericolo socialista o, peggio, quello  anarchico – favoriva il diffondersi in tutto il Sud, di una criminalità che, si chiamasse camorra o mafia (la ‘ndrangheta all’epoca era veramente poca cosa, fenomeno paesano e rurale), che nelle regioni meridionali, secondo Roberto Marvasi, trovava terreno fertile grazie agli appoggi di cui godeva negli ambienti della polizia, della magistratura e dell’amministrazione prefettizia. La corruzione dilagante, gli scandali bancari, i brogli elettorali, il trasformismo parlamentare sono stati sistematicamente coperti mediante una facciata di perbenismo che, di volta in volta, utilizzava ed agitava o l’imminente pericolo anarchico e socialista, ma un perbenismo che, secondo Roberto Marvasi, nel regime fascista non inibiva contatti tra malavita e ambienti della polizia, del potere prefettizio e della stessa magistratura. Insomma un cancro che infettava dall’interno la cosa pubblica, addirittura servendosi di quello stesso potere.

(consentitemi in questo finale Marvasiano di ringraziare il mio amatissimo fratello Vincenzo, medico, membro della Deputazione calabrese di storia patria, autore di apprezzate monografie storiche, per avermi inviato e segnalato stralci delle opere di Roberto Marvasi, che lui possiede nella loro interezza, compresa la raccolta completa de “La Scintilla”).

Tesi sociologica vera, ma che non può consentire – come sembrerebbero suggerire gli ultimi scopritori di ciò che era già noto – ad una colpevolizzazione generica e indimostrata della categoria, e ad una condanna al di là della prova oltre ogni dubbio.

Ma sarebbe anche utile, almeno per quanto riguarda la borghesia calabrese soprattutto dei professionisti e dei commercianti, una indagine sociologica se il “patto” che forse poteva essere nel ventennio fascista, non si sia rotto negli anni ’70 all’epoca dei sequestri di persona, che proprio quelle categorie borghesi hanno cruentemente colpito in Calabria.

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