venerdì, 26 Aprile, 2024
Considerazioni inattuali

Alla fine della scalata

Ho sempre mal sopportato, lo confesso, tutti i generi di arrampicamento; tranne quello sportivo, è sottinteso: quello mi ha sempre divertito. Eppure quello in senso metaforico, il più coriaceo (sic!), pur essendo per natura ridicolo e quindi all’altezza di (appunto) suscitare ironia o perlomeno di strappare qualche risata, mi è sempre stato intollerabile. Perché le arrampicate non si esauriscono soltanto nella parte di mare illuminata dal faro sociale, ma si stagliano in tutto quell’altro pezzo di roccia che il mare circonda: quello morale.

ARRAMPICATA SOCIALE E MORALE

E se in un certo senso gli arrampicatori sociali si possono capire e comprendere, quelli morali proprio non possiamo, proprio non dobbiamo, proprio non vogliamo – anzi, Non possumus: nell’ipotesi di rispondere ad un ufficiale napoleonico. Così profondamente, da aver distinto due diverse categorie o generi di captatio benevoletiae da temere ed allontanare perché il nostro – e soprattutto il mio – equilibrio psicofisico non subisse alterazioni: non di quelle sgradevoli, ecco.

MI SONO FATTO DA SOLO

Le arrampicate dunque, o meglio il tragitto sapientemente tracciato da chi lo fa per mestiere, strumentalizzando ciò che ha o non ha a disposizione, le ho distinte, come dicevo, in due tipi – e non così diversi tra loro in effetti rispetto a come potrebbero sembrare. I primi sono quelli che chiedono e pretendono dal prossimo l’aiuto necessario per arrivare, lamentandosi costantemente: mettendo avanti, prima ancora di sé e della propria individualità, i traumi, le mancanze, le cosiddette umili ascendenze. Proclamando la vita grama ed ingiusta quasi insuperabile urbi et orbi. E una volta arrivati, non smettendo mai di urlare a pieni polmoni da dove hanno cominciato e pretendendo – in forza di un nido di partenza fragile – che tutto il resto dell’universo mondo contribuisca a costruire loro una reggia tanto grande quanto l’ego che li muove.

IL CAMUFFAMENTO

La caratteristica principale dei Mi sono fatto da solo pare proprio sia che niente di ciò che hanno fatto, l’abbiano raggiunto in realtà autonomamente. In forza della pretesa semovente che tutti coloro che incontrano nel loro cammino, li risarciscano di non essere nati principi d’Inghilterra e con il talento di Maradona. Il secondo tipo di esperti arrampicatori di montagna invece, disprezza il proprio punto di partenza, rimuove da sé la propria origine e la nasconde assurdamente come se ne dovesse vergognare. Perciò reprime e mistifica una parte consistente – quella fondativa – della sua vita, si traveste da ciò che non è, si presenta in maniera del tutto differente: quella che vorrebbe essere; sviluppando per tale ragione un odio verso sé stesso, che ben presto si manifesta all’esterno estendendosi in livore sociale che spruzza un po’ dove capita, indistintamente.

IL LIMITE AUTOINFLITTO

Egli – o ella – investe ogni energia in una lotta tacita, fingendo indifferenza e covando risentimento. Compie la sua scalata, attraverso una serie interminabile di menzogne che risulteranno credibili soprattutto perché debbono esserlo: perché non possiede altro mezzo se non questo, da espletare e di cui usufruire con tutta la determinazione e con tutta la forza possibili. E sebbene il suo limite si concentri tutto nel disprezzo che alimenta verso sé stesso, nella vergogna che lo attanaglia e lo tormenta.

LA VISTA DALLA CIMA DELLA MONTAGNA

Eppure ora, alla fine di questo pezzo, dopo aver scritto queste ultime parole, mi chiedo se sia più il caso di non tollerare quelli che s’arrampicano. Forse basta la loro di vergogna, basta il loro auto-sabotaggio. In effetti, le arrampicate, che fossero sociali o morali, mi hanno sempre disgustato – questo l’ho detto e scritto – ma non avevo mai riflettuto su quello che vedono gli arrampicatori alla fine della scalata: forse tutto quello che hanno attraversato per arrivare, e non deve essere poi così bello.

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