venerdì, 19 Aprile, 2024
Cronache marziane

Ragionevolezza, probabilità e certezza nel pensiero dei nostri giudici

In questi giorni di grande tensione Internazionale – che molto ricordano quanto è accaduto in Europa alla fine degli anni ’30 – I miei colloqui con Kurt il Marziano sboccano spesso in toni che sfiorano la rissa, perché l’Extraterrestre, ben conoscendo l’esito dell’invasione dell’Ucraina (lui, come noto, si muove agevolmente fra passato, presente e futuro del nostro pianeta) paventa spesso conseguenze così paradossali da suscitare in me una reazione che poco si concilia con il mio ruolo di ospite del suddetto Kurt.

Dopo tante discussioni abbiamo dunque raggiunto una tregua: finché la situazione internazionale sarà quella che tutti abbiamo sotto gli occhi, le nostre discussioni non avranno ad oggetto le vicende di stretta attualità, ma si limiteranno a toccare questioni  essenzialmente teoriche, perché scaturenti dall’uno dall’altro libro che il Marziano usa andare a pescare nella mia biblioteca.

Stavolta è toccato a “Dubbi ragionevoli” di Alan M. Dershowitz (Milano, 2007), opera in cui l’Autore – un grande avvocato americano – analizza il sistema della giustizia penale del suo  Paese, prendendo come base dei propri ragionamenti il caso di O.J. Simpson: il pugile a suo tempo accusato di aver brutalmente assassinato la sua convivente e il suo compagno.

Prima assolto da una giuria popolare – istruita dal giudice dell’udienza penale a decidere secondo il criterio del “More probable than not “(“Più probabile che non”) – e successivamente condannato – in sede civile, diremmo noi – da altra giuria, che (sulla base di identiche prove e non diverse istruzioni ricevute da un ulteriore  giudice)  lo costrinse a risarcire i parenti delle vittime di quello stesso duplice omicidio.

I pochi lettori di questa rubrica si domanderanno, a questo punto, per quali ragioni una vicenda così lontana nel tempo nello spazio (erano i primi anni novanta dello scorso secolo) possa essere considerata di tale rilevante attualità da spingere chi la conduce a sottoporla ancora oggi alla loro attenzione: la ragione è non poco sorprendente, consistendo nella circostanza che del principio prima richiamato viene fatto uso sempre più frequente anche dai giudici nostrani e in particolare da quelli che si occupano – in separata giurisdizione – delle controversie fra privati e pubbliche amministrazioni, ovvero di una materia nella quale il conflitto fra autorità e libertà dovrebbe esser risolto, anziché secondo criteri probabilistici, rispettando quello della certezza del diritto.

Il sistema processuale nordamericano si basa d’altronde su regole di Common Law (fondate cioè sul principio del precedente giurisprudenziale) che non sono calabili nell’ordinamento continentale europeo che invece si fonda su quelle di  Statute Law (intese come ricercabili all’interno di atti normativi primari per l’applicazione dei quali il giudice non ha alcun vincolo nei propri precedenti, ma decide utilizzando la propria discrezionalità nell’interpretare gli atti) e i risultati cui perviene la più recente giurisprudenza amministrativa appaiono abbastanza paradossali, andando dal giustificare l’irrogazione di un Daspo ad un avvocato, trattandolo come un qualunque bagarino, fino a legittimare sempre e comunque l’adozione di misure interdittive nei confronti di imprese operanti in ambienti fortemente connotati dalla presenza di criminalità organizzata nel territorio di appartenenza.

Taluno ha sostenuto che le decisioni appena richiamate si giustificano per il fatto stesso di trovarci in presenza di situazioni emergenziali, ma questa è una descrizione piuttosto che una spiegazione e non ci consente di capire neanche le ragioni in base alle quali il principio costituzionale (ormai addirittura di rango eurounitario) della presunzione di innocenza possa trovare limiti – anziché sulla base del criterio della certezza del diritto – nell’altro, meramente probabilistico, della ragionevole possibilità che certi comportamenti possano sempre  e comunque legittimare l’adozione di misure restrittive della libertà  economica dei singoli che si trovino ad operare in ambienti ove l’emergenza sociale imponga l’uso del pugno di ferro da parte delle autorità deputate a fronteggiare l’emergenza stessa.

Fortunatamente però il “principio del più probabile che non” viene sempre più spesso a scontrarsi – almeno qui da noi – con i principi dettati dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo e dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, per cui gli operatori del diritto non avranno bisogno di ricorrere alla consultazione di opere giuridiche come quella, prima citata, di Alan M. Dershowitz e – sulla base di questa semplice considerazione –  avevo ragione di ritenere che il Marziano avrebbe saputo cogliere le differenze fra l’ordinamento nordamericano e quello europeo meglio di quanto non abbiano saputo fare, fino ad oggi,  i giudici amministrativi e in particolare il Consiglio di Stato.

Quest’ultimo organo giudiziale – attraverso il richiamato principio – sembra infatti voler scimmiottare il giudice penale allorché applica la regola che definisce l’illegittimità amministrativa per combattere fenomeni che vanno al di là del loro campo definitorio: rischiamo così di andare a trovarci in presenza di effetti analoghi a quelli che la letteratura giuridica paventava quando parlava del “giudice di scopo”, oppure che – alla fine degli anni 60 del secolo scorso – si raccoglievano sotto l’etichetta di “uso alternativo del diritto” (v. Donini, “Le sentenze Taricco come giurisdizione di lotta”, in ”Diritto penale contemporaneo”, 2019, 3).

Mi sbagliavo però, perché Kurt mi ha fatto allora osservare quanto possano essere lunghi i tempi per ottenere un indirizzo consolidato dei giudici europei verso il principio della certezza del diritto in sostituzione di quello della probabilità di fare giustizia.

Ne ho dovuto perciò concludere che dovremo continuare a fare i conti con questo modo di opinare all’americana ancora per un lungo periodo: e non è una conclusione che mi lascia tranquillo, soprattutto riflettendo a proposito del tasso di ragionevolezza presente nei ragionamenti dei giudici che fanno applicazione di un criterio obiettivamente avulso dalla nostra tradizione giuridica nazionale e continentale.

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