domenica, 22 Dicembre, 2024
Crea Valore

Quale politica di sviluppo con CDP e Recovery Fund

Nella sesta uscita della rubrica quindicinale “Crea valore” il prof. Ubaldo Livolsi, esperto di finanza e investimenti, affronta con La Discussione temi di grande attualità. Nell’intervista odierna il prof. Livolsi ci parla delle attività di investimento strategico di Cassa Depositi e Prestiti e dell’utilizzazione del Recovery fund.
Buona lettura.

Prof. Livolsi, il “Decreto Rilancio” ha autorizzato la costituzione di un fondo pubblico denominato “Patrimonio Destinato”. Cosa pensa del nuovo strumento di Cassa Depositi e Prestiti? Attraverso questo strumento si potranno effettuare anche investimenti diretti in imprese strategiche e di rilevante interesse nazionale che abbiano oltre 50 milioni di euro di fatturato e si potrà intervenire a sostegno delle imprese partecipando ad aumenti di capitale, ma anche sottoscrivendo prestiti obbligazionari con obbligo di conversione o subordinati convertibili, nonché subordinati. Quali potrebbero essere le opportunità e i limiti di questo provvedimento?
Si tratta di un provvedimento molto importante, molto discusso e anche molto discutibile. Le aziende hanno una grave crisi di equity e lo Stato ha ideato questo strumento straordinario, denominato appunto “Patrimonio Destinato”, pari a 44 miliardi, che permetta a CDP di entrare nelle aziende con strumenti sia di capitale che di debito. L’ingresso dovrebbe essere a tempo determinato per risolvere situazioni temporanee di insufficienti patrimonializzazioni e liquidità. È necessaria molta prudenza. Se lo Stato entra nel patrimonio delle aziende, c’è il rischio di stravolgere le regole di mercato, le logiche del successo delle imprese, della libera concorrenza, la loro capacità di generare reddito e una vita di lungo periodo a vantaggio di tutti gli stakeholders. C’è sempre il rischio della logica clientelare, di occupazione dei ruoli dirigenziali affidati a figure non manageriali. In un momento come l’attuale, “Patrimonio Destinato” può essere utile. Con un’immagine si può pensare a un direttore d’orchestra che dà il via al concerto, ma che è altro dai singoli componenti dell’orchestra. Come ricordava nei giorni scorsi sul Corriere della Sera Federico Fubini, lo Stato nell’ultimo anno ha destinato risorse ad aziende di vario genere – da Alitalia a Diesel dalla Banca Popolare di Bari alle Cartiere Burgo alle acciaierie di Taranto – senza però una strategia, una visione. Bisogna evitare che ciò diventi una consuetudine, mettere capitale nelle aziende senza chiedere in cambio un piano imprenditoriale da portare avanti da parte di manager. 

Secondo Lei per far fronte alla crisi di liquidità delle casse degli enti pubblici regionali, si potrebbe far ricorso all’emissione di Bond (regionali) con l’ausilio di Cassa Depositi e Prestiti?
Come noto, già diverse Regioni hanno emesso dei propri bond, che sono stati ben accolti dal mercato visto il rating a volte migliore di quello dello Stato italiano. Ora, proprio per non gravare sul bilancio dello Stato, il MEF ha imposto limiti di indebitamento alle Regioni stesse, che rischierebbe di gravare ulteriormente su quello dell’Italia che è pari al 160% del Pil. A mio parere può anche essere presa in considerazione l’ipotesi che Cassa Depositi e Prestiti agisca in questa direzione, ciò alla luce del cambiamento paradigmatico della gestione del debito da parte delle istituzioni finanziarie, dai singoli Stati all’Unione europea, che tendono a “comprare” il debito. Tuttavia, il problema in realtà è più complesso, perché qui entriamo nell’ambito politico del federalismo fiscale, vecchio cavallo di battaglia della Lega, più di quella della prima ora (Umberto Bossi) che dell’attuale Lega Nord (Matteo Salvini). Cionondimeno, alla fine, come ricorda spesso Mario Draghi, il punto non è se fare debito o no, ma che, se deve essere fatto, deve essere debito “buono”, magari accompagnato da una revisione dei costi superflui dell’amministrazione pubblica: sono stati pubblicati molti studi (Cottarelli docet) su come ridurli, ma purtroppo sono rimasti nei cassetti dei burocrati.

Come spendere i soldi del Recovery fund? Dove investire questa massa di risorse che, come molti dicono, non abbiamo visto dai tempi del piano Marshall e che probabilmente non vedremo più per molti anni a venire?
Parliamo di 209 miliardi destinati all’Italia, di cui 82 a fondo perduto, che dovranno essere utilizzati fino al 2026, con investimenti, come rammenta spesso la commissaria Ursula von der Leyen, per arrivare a un Europa più ecologica, digitale e resiliente. È il concetto di economia circolare, che necessita di investimenti in infrastrutture fisiche e digitali, nell’educazione, nella ricerca, nella scuola. Le vicende del nostro Parlamento, dalle polemiche sulla squadra di manager cui affidare la gestione fino a oggi, con il presidente del Consiglio Giuseppe Conte sotto attacco da parte di componenti della maggioranza che lo sostiene (Matteo Renzi), non fa ben sperare. Tutto il contrario dell’idea dei “costruttori” auspicata dal capo dello Stato Sergio Mattarella nel suo discorso alla nazione di fine anno. Fondamentale, nella gestione dei fondi europei, sarà creare quel clima di aspettative positive all’interno del Paese, tra le persone e le imprese. Pensiamo ai 1.700 miliardi di risparmi degli italiani che giacciono sui conti correnti, al fatto che il 70% dei nostri risparmi sono investiti all’estero. Solo con la fiducia nel futuro, gli italiani potrebbero destinare parte di tali risorse nel capitale delle aziende nazionali.

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