venerdì, 3 Maggio, 2024
Società

La “pesca a strascico” non fa giustizia

Ci occupiamo oggi di una vicenda che da qualche giorno riempie le pagine dei quotidiani: quella degli “spiati” da parte di chi non avrebbe il potere di farlo in modo lecito, pur avendone a disposizione i necessari strumenti.

Strumenti consistenti nell’aver ottenuto libero accesso alle cosiddette SOS (Segnalazioni di Operazioni Sospette) con cui gli operatori finanziari alimentano alcune banche-dati, da effettuare sulla base di quelle famigerate “Istruzioni” che la Banca d’Italia-Vigilanza offre agli Istituti creditizi e finanziari per combattere (così si dice) il riciclaggio del danaro.

Queste Istruzioni sono progressivamente cresciute negli anni e ne ho più volte sottolineato la dubbia legittimità, per essere le stesse viziate da un conflitto di interessi nascente dalla circostanza giusta la quale le quote azionarie della Prima (controllore) sono state date in proprietà ai Secondi (controllati) che potrebbero così beneficiare dell’uso, in proprio favore, dei poteri di controllo in precedenza trasferiti alla stessa Banca d’Italia dal Ministero del Tesoro (oggi Ministero dell’Economia): trattasi dunque di una fattispecie patologica, espressamente sanzionata come invalida dall’articolo 6-bis della legge 241/1990.

Ora che la vicenda è finalmente balzata agli onori delle cronache, si spera che il Governo voglia correre ai ripari; ma quel che deve preoccupare tutti noi è che venga effettivamente accertato se trattisi di un episodio isolato, oppure se essa sia la punta dell’Iceberg di una prassi venutasi, come tale, a consolidare nel tempo con quanto inevitabilmente ne consegue: soprattutto a proposito dell’adozione di misure cautelari – personali e patrimoniali – che la prossima riforma della giustizia dovrebbe almeno rendere di più difficile e ponderata adozione.

Neanche deve dimenticarsi come tutti i soggetti coinvolti in questa ennesima storia (di pesca a strascico dei dati da offrire ai Mass Media) abbiano il diritto di beneficiare di quella “presunzione di innocenza” che – per singolare paradosso – difficilmente sarebbe stata riconosciuta alle loro vittime allorché, in esito di quanto raccolto, fossero stati avviati decine di procedimenti penali (alcuni peraltro già in corso), in nome di quell’obbligatorietà dell’azione che rappresenta un Unicum del nostro ordinamento rispetto a quelli in vigore negli altri Paesi occidentali e che sempre troppo tardi verrà cancellata dall’articolo 112 della nostra Costituzione.

Mai come in questo caso, d’altronde, si riesce a comprendere il profondo significato della massima latina secondo cui “Oportet ut scandala eveniant”; resterà però senza risposta una domanda che ciascuno di noi dovrebbe porsi: come mai, di un simile modo di fare indagini, nessun addetto ai lavori si era – fino ad oggi – mai accorto?

Anche per trovare quella risposta, ripeto anche stavolta che sarebbe quanto mai opportuno, da parte del Parlamento – nell’esercizio dei propri poteri ispettivi – aprire un’indagine sull’accaduto, dando voce non solamente agli operatori di giustizia, ma anche alle loro vittime.

L’identificazione di quelle vittime dovrebbe essere il compito principale – anche se il più difficile – del lavoro da affidare alla Commissione d’inchiesta che verrebbe ad occuparsi di quanto sta ora emergendo, ma è lecito dubitare che le Camere vogliano effettivamente mettere il naso in una materia così scottante: ci troveremmo allora di fronte all’ennesima occasione perduta per rendere la nostra Giustizia in grado di competere (almeno) con quella degli altri Stati membri dell’Unione Europea.

Se non si volesse dunque procedere a una riforma degli strumenti di indagine per ragioni ideali, lo si faccia almeno per una ragione di carattere economico: contribuire a rendere l’Italia più competitiva, senza dover necessariamente intaccare le poche risorse finanziarie che Le restano a disposizione.

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