giovedì, 9 Maggio, 2024
Cultura

Il Messiah di Händel all’Accademia di Santa Cecilia, speranza ed emozione

Sintetizzare il Messiah di Georg Friedrich Händel è impresa impossibile quanto sintetizzare il divino a cui si ispira. L’opera è un capolavoro che si è imposto nel tempo, crescendo incessantemente. Alla prima, il 23 marzo del 1743 al Theatre Royal di Covent Garden, era presente un pubblico di formidabile eterogeneità, che rispecchiava il fermento del tempo e i cambiamenti culturali  in pieno sviluppo, con spinte diverse e contraddizioni importanti; la storia ricostruita a posteriori, narra, attraverso una lettera al reverendo Laing, inviata dal filosofo scozzese James Beattie, che quella sera fosse presente anche il Re. A proposito di ciò, si narra che nel momento in cui il coro intonò “perche’ il Signore Dio Onnipotente regna, il Re stesso si alzò in piedi, imitato dagli altri spettatori, e dando inizio alla consuetudine inglese di alzarsi in piedi durante l’esecuzionedi quel passaggio della musica.
Certamente sto scrivendo di una delle pagine musicali più celebri e più frequentemente associate al Natale, il Messiah di Georg Friedrich Händel, che dal 20 al 22 dicembre all’Auditorium Parco della Musica Ennio Morricone, è stato diretto dal Maestro statunitense John Nelson sul podio di Santa Cecilia dopo 29 anni di assenza.
Da diversi decenni Nelson è ospite delle maggiori orchestre del mondo e la sua registrazione di Les troyens di Berlioz è stata recentemente premiata con un “Award for Opera” dal BBC Music Magazine, mentre la rivista Gramophone l’ha scelta come “Registrazione dell’anno ” e il Sunday Times come “Registrazione del decennio”.
L’Orchestra e il Coro dell’Accademia di Santa Cecilia, istruito da Andrea Secchi, hanno eseguito uno degli oratori più celebri della storia della musica, un’opera alla quale il nome del compositore sassone è da allora indissolubilmente legato. Il Messiah, su un libretto in lingua inglese di Charles Jennens con testi tratti dalla Bibbia di Re Giacomo (la prima versione autorizzata dalla chiesa anglicana nel 1611) e dalla versione dei Salmi compresa nel Book of Common Prayers, si articola in tre parti: la prima tratta dell’Avvento, la seconda della redenzione mentre la terza preannuncia il ritorno di Cristo –, è stato composto in sole tre settimane tra l’agosto e il settembre del 1741, mentre la prima esecuzione ebbe luogo a Dublino nell’aprile del 1742. Come consuetudine dell’epoca, la musica è stata parzialmente ripresa da brani precedenti, tra cui alcune cantate italiane, ed è contraddistinta da una vocalità più sobria rispetto al canto dei virtuosi italiani, con pochi recitativi, numerose arie tutte di straordinaria varietà espressiva affidate alle voci solistiche, e possenti interventi corali, come il celebre coro Halleluja che chiude la seconda parte dell’oratorio. Dopo la sua composizione, pare che il compositore abbia esclamato “Pensai di aver visto tutti i cieli davanti a me, e lo stesso grande Dio seduto in trono, con la sua compagnia di angeli”. I solisti dei tre concerti sono Sara Blanch (soprano), Sasha Cooke (contralto), Krystian Adam (tenore) e Anthony Robin Schneider (basso).

Dal punto di vista esecutivo coro e orchestra hanno dato vita a un concerto di rara fusione tra sinuosità quasi sensuali e altissima spiritualità, merito della complessità Handeliana che travalica i confini del barocco e risente dell’influenza operistica, con cui il compositore si è confrontato nei suoi soggiorni in Italia. L’interpretazione di cantanti e musicisti è stata magistrale, compiendo una fusione sinfonica maestosa, frutto di una capacità di armonizzazione difficilissima quando si ha a che fare con una scrittura musicale così articolata e questa è una nota di merito da riconoscere al Maestro in primis e poi a tutti gli artisti. Il Coro è stato, a parer mio, l’elemento di forza del concerto, magnifico nella parte Pastorale, indimenticabile nell’Alleluja.

Il Messiah è ancora oggi tra le composizioni più apprezzate in Gran Bretagna e Händel uno dei compositori più amati, tanto che il celebre scrittore e drammaturgo George Bernard Shaw affermò: “Händel per gli inglesi non è soltanto un compositore, è una istituzione. Di più: è una istituzione sacra”. Ed è proprio in questo multipiano sacro, in cui compositore e opera sommano il portato spirituale che si è spesa una delle pagine più memorabili della stagione sinfonica degli ultimi anni, mostrando, ancora una volta, la grandezza, anche di intenti, dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, in un concerto che si è sviluppato, di nota in nota, come preghiera e speranza, così come il suo autore l’aveva concepita dedicandola agli ultimi, ai reietti, chiudendo un anno di grandi riprese per l’arte e di terribili notizie per il mondo: con questo concerto abbiamo imparato di nuovo a scoprirci uguali nel bisogno di salvezza dal dolore; abbiamo imparato di nuovo a pregare, a sperare.
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