giovedì, 25 Aprile, 2024
Il Cittadino

Gli Spielberg italiani

Monsignor Vincenzo Paglia, arcivescovo presidente della Pontificia Accademia per la vita e Gran cancelliere del Pontificio Istituto Giovanni Paolo II, lo scorso mercoledì 14 settembre ha pubblicato su Il Riformista un poderoso articolo, un appello anzi: Carceri incivili, liberate 4000 detenuti condannati a meno di due anni”.

L’occasione dell’articolo era dato dall’ennesimo suicidio in carcere – segno di una situazione che è diventata intollerabile per un Paese civile e per uno Stato di diritto – e dalla considerazione di Mauro Palma, Garante Nazionale delle persone private di libertà, sull’illegale e tragico sovraffollamento delle carceri e sulla inutilità del tempo detentivo: «Ci sono in carcere circa 1300 persone che devono scontare pene inferiori a un anno e circa 2500 con una pena tra uno e due anni. Per queste persone il tempo è totalmente vuoto. Spesso stanno lì perché non hanno il domicilio o l’assistenza legale, appartengono a una povertà complessiva. Se riuscissimo a portarle in altre strutture territoriali di controllo e supporto si abbasserebbero anche i numeri del sovraffollamento».

Vi assicuro, miei affezionati quaranta lettori: si tratta di un articolo che è utile leggere. Non tanto per l’attualità del problema, quanto per l’inquadramento dello stesso in un contesto sociale drammatico, esaminato anche sotto un profilo culturale che pone la Chiesa cattolica in una posizione di assoluta avanguardia e capace di suscitare lo “scandalo” della rivoluzione predicata da Cristo. «Il cristianesimo dà una importanza fuori del comune non solo alla visita ma addirittura alla liberazione dei carcerati. È una richiesta certamente provocatoria. E per parte mia penso che sia da raccogliere per non attutire la forza scandalosa del cristianesimo a tale riguardo», annota dottamente Mons. Paglia, con citazioni di passi biblici e del Vangelo. Compreso quell’«ero in carcere e siete venuti a trovarmi», con cui Gesù non soltanto ricorda il precetto biblico di visitare i carcerati, ma anche che il carcere è uno strumento del potere e che, in esso, sono rinchiusi anche innocenti o persone ingiustamente perseguitate. Come il caso dello stesso Gesù, e dei tanti incarcerati nel mondo perché di diversa religione, di diversa opinione politica, di differente etnia, di condizione sociale deteriore.

Ma anche – ed è il caso più frequente in Italia – migliaia di presunti innocenti, in attesa di processo: molti di questi verranno assolti dopo la devastazione della loro vita, dopo una detenzione dura ed estremamente lunga (l’Italia, per l’accusa di un reato di mafia, consente una carcerazione preventiva  più lunga di quella ammessa nell’Egitto di Zaki).

Non è un caso che la Rivoluzione francese – l’origine della nostra cultura – ha il suo evento cruciale il 14 luglio 1789 con la Presa della Bastiglia, l’antica prigione di Stato che aveva rinchiuso nelle sue celle addirittura Voltaire, considerata il vero simbolo del potere, il luogo dove il potere segregava i suoi nemici, mescolandoli ai criminali.

Episodio che sembra quasi la materializzazione della provocazione di Mons. Paglia che il Vangelo, la buona novella, porta l’annuncio profetico della liberazione dei prigionieri.

Venerdì – l’altro ieri, il giorno dopo l’articolo da cui abbia preso le mosse – è morto Roberto Vitale, un giovane carcerato condannato per rapina, impiccatosi col lenzuolo alle sbarre della cella.

Il padre ha scritto una straziante lettera, durante il breve coma pre-decesso del figlio, denunciando la mancanza di sostegno medico, addirittura la carenza di acqua.

Una situazione drammatica, una pena ulteriore a cui il giovane rapinatore non era stato condannato. La privazione ulteriore, oltre la libertà, anche di diritti fondamentali ed alienabili: il diritto alla salute, addirittura la perdita della dignità umana.

Nel 1966 (mamma mia, quanto tempo fa!) frequentavo la terza classe alla Scuola Media Sorace Maresca di Locri. Il professore di lettere, ci parlò di Silvio Pellico, della sua storia e, soprattutto, del suo libro “Le mie prigioni”, dove aveva narrato gli orrori della sua prigionia nel carcere dello Spielberg in Moravia, nell’attuale Repubblica Ceca. Un libro, ci spiegava il professor Morabito, divenendo per l’indignazione più rosso del solito, che raccontando le atrocità inumane e la barbarie del carcere venne definito da Metternich più «dannoso per l’Austria di una battaglia persa».

Non è più tempo di patriotti, non è purtroppo più tempo del diritto, che sembra definitivamente perso, sopraffatto da leggi e da un sistema finalizzato a determinare uno squilibrio in danno del cittadino accusato e che ha sostituito nella coscienza di molti la “certezza del diritto”, che è un principio di altissima civiltà, con “la certezza della pena” che è un “non principio”.

Non ho competenze per indicare alternative al carcere (ma credo se ne possano trovare), ma ribadisco il mio dubbio che se si può negare allo Stato il diritto di uccidere un cittadino, si può negare anche il diritto di privarlo della libertà. La privazione della libertà, comunque, è una espiazione che deve avere una sua etica, finalizzata al recupero del reo e alla sua riconciliazione con la comunità.

Insisto, quindi, con la stessa chiusa del mio precedente scritto sul tema (repetita iuvant): «verrà un tempo futuro in cui il carcere come lo intendiamo oggi verrà ritenuto una barbarie. Certamente, però, è già arrivato il tempo, nel 2022, di attuare i principi costituzionali stabiliti nel 1948: tre quarti di  secolo fa».

Il Governo che riuscirà a farlo avrà vinto una battaglia importante, quanto quella persa da Metternich.

Ma nell’odierno dibattito pre-elettorale giustizia e carceri non sono considerati.

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