domenica, 15 Dicembre, 2024
Il Cittadino

L’invidia dell’intelligenza

«Tutti contro D’Alema. L’invidia dell’intelligenza è un peccato mortale contemplato anche dalla chiesa comunista». Con queso tweet, postato lo scorso 3 gennaio, Gianfranco Rotondi commentava le reazioni alla improvvisa notazione di Massimo D’Alema, che ha dichiarato la fine della «necessaria» esperienza del “Numero Uno” e stabilito il suo reingresso nel PD, «guarito dalla malattia del renzismo».

Massimo D’Alema è certamente una persona dotata di una grande intelligenza.

Proprio con riferimento alla sua intelligenza ho potuto in qualche modo rispondere a mio figlio numero due, Antonio (Indiana University), che mi chiedeva già anni addietro per quale mistero ogni uscita di D’Alema, solitamente silente, provocasse una forte scossa nella sinistra italiana.

La verità è che si tratta di un mistero che non mi spiego, se non con il carisma del personaggio e con i seguaci su cui egli può contare all’interno dell’area politica di appartenenza: più vasta dei partitini nei quali ogni tanto si arroccano i più nostalgici di riti e modi della sinistra che fu.

Sono sempre stato attento alle dichiarazioni e prese di posizione di D’Alema proprio per questa capacità di determinare linee politiche.

Ma ricordo con chiarezza che la politica fiscale dei suoi due governi consecutivi (dall’ottobre 1998 all’aprile 2000), col Ministro delle Finanze Visco, mi fecero sentire nemico dello Stato per l’appartenenza alla categoria delle “partite Iva”, quale libero professionista. Da cui un voto alle elezioni per me anomalo, che provocò nel mio citato figlio Antonio (all’epoca sedicenne), una reazione di rabbia: «tu non puoi fare queste cose», con tiro di un forte pugno sul muro e conseguente rottura della mano.

L’ho studiato molto questa settimana, D’Alema. Credo proprio si tratti di una persona di grande intelligenza, magari resa meno efficace da quella sorta di livore annotata da Antonio Polito con l’articolo «Quirinale, D’Alema e gli altri leader del “partito dei rancori” sulla strada per il colle» (mercoledì 5 gennaio sul “Corriere”).

Credo, però, che come spesso accade, l’intelligenza possa essere settoriale e non sia da sola sufficiente, potendo portare anche a soluzioni irrazionali: sull’argomento c’è un’intera letteratura che mi è capitato sporadicamente di leggere in maniera disorganica; quindi non mi dilungo.

Ciò che mi lascia perplesso nella sortita di D’Alema è la sua conclusione (come riportata da “Il fatto quotidiano” del 2 gennaio,  “Massimo D’Alema vuole tornare nei Dem”): «Si faccia un passo decisivo in avanti nella ricostruzione di una grande forza progressista. Alla fine non sarà il partito che volevamo noi, ma secondo me vale la pena di portare questo patrimonio che noi rappresentiamo nel contesto di una forza più grande”.

Con quella rassegnata ammissione che «alla fine non sarà il partito che volevamo noi», D’Alema sembra disegnare una soluzione identica a quella che egli stesso non ha consentito a Matteo Renzi.

Il partito, difatti, non essendo quello che volevano lui e gli altri Numeri Uno non avrà più quelle radicalizzazioni che tenevano lontani tanti progressisti liberali. Indispensabili questi ultimi – come Renzi aveva capito – per costruire la «grande forza progressista» cui oggi ambisce lo stesso D’Alema. Ma per fare avvicinare questa categoria di progressisti occorre capirne la natura anticomunista: non dico per assecondarla, ma per rassicurare – come Renzi era riuscito a fare – che votando per il PD non si sarebbe corso il rischio di favorire ideologie marxiste.

Non un’abiura, ma soltanto la riduzione ad un retaggio storico della parte più radicale e “conservatrice” dell’essere di sinistra della composita popolazione confluita a suo tempo nel PD.

Non penso che D’Alema veramente intenda perseguire un simile scopo.

Più banalmente – e forse romanticamente – mi piace pensare che egli voglia riconquistare il PD, dopo la rottamazione subita: poco importa, infatti, che egli non sia stato scacciato dal PD, ma che se ne sia andato spontaneamente: il risultato è il medesimo. Riconquista che metterebbe fine alla politica dei “nominati”, siano essi il segretario del PD o il Presidente del Consiglio. Ma che significherebbe negare per sempre al PD l’obiettivo voluto che è irraggiungibile con alla guida il divisivo D’Alema.

Il quale rischia addirittura di ripetere il più clamoroso errore di Renzi: scacciare Enrico Letta, che è atto che politicamente non paga.

Occorre che le soluzioni, dicono gli esperti, siano dettate da razionalità, senza la quale l’intelligenza compie scelte irragionevoli. E qui finisco questa mia analisi sull’intelligenza, sperando di non essere incorso nel cretinismo denunciato da Sciascia, «mimetizzato nel discorso intelligente, nel discorso problematico e capillare».

E, naturalmente,  honny soit qui mal y pense.

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