sabato, 20 Aprile, 2024
Economia

La via della seta

“I fatti parlano più forte delle parole”, ha detto il vice ministro degli Esteri cinese, Wang Chao. Un altro Comunista, come Lenin avrebbe detto che “i fatti hanno la testa dura”. Di che fatti parliamo? Della “Via della Seta” delle strategie commerciali della Cina – che vedranno l’Italia protagonista -, e che sono anche nella testa del nuovo governo 5S-Pd e quindi nell’agenda del presidente Conte.

La “Via della Seta”, avrà il mare Mediterraneo e i porti italiani tra i punti di riferimento. Secondo Pechino l’adesione all’iniziativa porterà “assolutamente” vantaggi sul piano economico e commerciale sia per l’Italia che per la Cina. Ma siamo veramente attrezzati per questo imponente traffico commerciale che dalla Cina lambirà la nostra penisola per poi diramarsi in Europa e Africa? I dubbi sono legittimi perché tra i 57 porti italiani pochi hanno caratteristiche tali da poter far attraccare mega navi e smistare centinaia di milioni di tonnellate di merci. Complessivamente, nell’ultimo anno, i porti dell’Italia centro-settentrionale hanno movimentato 243 milioni di tonnellate di merce con 6,3 milioni di teu (twenty feet equivalent unit, l’unità di misura del traffico container) in crescita del 2,2%. I passeggeri sono stati 13,2 milioni di cui 4,6 milioni di crocieristi.

Il punto debole degli scali italiani sarà il trasferimento merci un’attività di smistamento chiamata “transhipment”. Anzi, nel rapporto attuale di scambi, siamo tra i protagonisti nel Mediterraneo ma se iniziano i grandi traffici con la Cina rischiamo di diventare marginali. Ci sono porti nel Mediterraneo che hanno, infatti, aumenti esponenziali del loro flusso commerciale come il Tanger Med in Marocco (+452,1%) e il Pireo in Grecia (+199,8%), che negli ultimi dieci anni hanno segnato un miglioramento impressionante delle loro attività. Arriviamo così al primo punto critico: gli scali italiani, hanno caratteristiche strutturali di piccole e medie dimensioni, e che tra l’altro cominciano a mostrare segni di difficoltà causati dalla crescente tendenza nei mari internazionali al gigantismo navale.

Nel 2012 le navi oltre i 10 mila Teu di volume erano il 13%, oggi sono diventate il 31% ed entro il 2021 saranno il 37%. Tra 119 cargo che vanno oltre i 10 mila Teu, 47 arrivano addirittura alla fascia 18-23 mila.
Secondo l’accordo firmato di recente la società edile cinese Cccc aiuterà l’Autorità Portuale di Genova nella gestione delle gare d’appalto per la costruzione di un nuovo terminal container, adatto a cargo superiori a 20 mila Teu. In questo caso dovrà essere realizzato un avamporto.

Tra i limiti, a parte quelli naturali come i fondali poco profondi, bisognerà fare i conti con le debolezze nei collegamenti infrastrutturali. Secondo i dati di Studi e Ricerche per il Mezzogiorno (Srm) centro di ricerca finanziato da Intesa San Paolo condivisi anche da Assoporti, l’Italia è la terza potenza marittima in Europa, dopo l’Olanda e il Regno Unito. Il terzo posto diventa sedicesimo se invece della quantità di merce movimentata si prende in considerazione il Liner Shipping Connectivity, un indice usato nel contesto internazionale per misurare la connettività marittima. In base a questa misurazione, nel mondo dominato dalla Cina, l’Italia è diciannovesima.  Non solo: la sfida dei porti italiani non è solo logistica, ma anche un problema di eccesso di burocrazia, di vincoli che creano ritardi e inefficienze, mentre un blocco per una nave e il suo armatore significa migliaia di dollari persi l’ora.

“La burocrazia che è uno dei mali del nostro Paese, non consente di ricevere risposte in tempi adeguati”, osserva Pasquale Legora De Feo, AD di Conateco e vicepresidente di Confcommercio Campania con delega alla logistica. Ritardi e infrastrutture carenti sono i nodi che frenano lo sviluppo degli scali marittimi italiani così i numeri e i volumi di scambi ci sono avversi.

Le merci in container movimentate nel Mediterraneo in cui passa un quinto del traffico marittimo mondiale sono aumentate del 500% negli ultimi vent’anni. Ma nei porti italiani quell’incremento è di dieci volte inferiore, +50%. È uno dei dati critici emerso da un focus sugli scambi commerciali presentato a Cernobbio in occasione del quarto Forum internazionale di Conftrasporto. Il sistema portuale, visto come un unicum, emerge come fanalino di coda per colpa di “frammentazione e pesante burocrazia che frenano la crescita dei porti nazionali, molti dei quali hanno piani regolatori vecchi di 60 anni”. A mancare è anche “un coordinamento, una cabina di regia a livello nazionale”. L’Italia, infatti, ha 57 porti di carattere nazionale, la classifica in base alle tonnellate di merci movimentate nel 2017 vede lo scalo di Trieste al primo posto, seguito da Genova e Cagliari. A chiudere i primi dieci posti è Napoli. Ai cinesi interessano solo due porti, infatti Genova e Trieste che sono diventati il punto di arrivo della linea immaginaria che collega la Cina all’Europa via mare. Lo dimostrano anche gli accordi commerciali tra Pechino e Roma, 22 progetti che però riguardano i soli due scali marittimi.

La distribuzione dei terminal container, spiega Conftrasporto, interessa 13 porti su 57 e l’attuale capacità teorica di movimentazione dei terminal operativi è di 16,7 milioni di Teu, ovvero maggiore di circa il 60% della movimentazione effettiva registrata nel 2017, segno che le potenzialità sono decisamente più alte rispetto al risultato reale. Dietro tale dato si nascondono situazioni particolarmente differenziate, con terminal saturi in alcuni porti e poco utilizzati in altri. E così i risultati complessivi sono contraddittori. La “Via della Seta” per non rimanere un miraggio avrà bisogno di porti che siano eccellenze, in innovazione, infrastrutture, una burocrazia snella, accordi commerciali globali che investano ogni area del mondo. Insomma “i fatti parlano più forte delle parole”, ma i fatti devono diventare concreti altrimenti prevarranno auspici e parole.

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