giovedì, 18 Aprile, 2024
Cultura

Van Gogh: ultimi giorni a Palazzo Bonaparte

Zundert, 30 Marzo 1853: nasce Vincent Van Gogh

Zundert, 30 Marzo 1853: nasce Vincent Van Gogh. Roma, 30 Marzo 2023: 170 anni dopo, ammiriamo ancora le sue opere, a Palazzo Bonaparte in Piazza Venezia, in mostra fino al 7 Maggio.

Più che una mostra di Van Gogh, troviamo l’esposizione di alcune delle tante opere custodite, quasi 90 dipinti e 180 disegni, nel Museo KröllerMüller, ad Otterlo, 80 km da Amsterdam, all’interno del Parco Nazionale De Hoge Veluwe (a Vincent sarebbe piaciuto).

Helene Müller, collezionista, ritratta ad olio da Floris Verster nel 1910 su una delle tele esposte in mostra, intuì presto la genialità di Van Gogh; dopo Johanna, però, moglie di Theo, che organizzò le prime mostre di Vincent ad Amsterdam, poco dopo la sua morte. Le affinità elettive unirono, nella storia, il nome di Helena a quello dell’Artista, ma Vincent non c’era già più dal 1890, dal tragico epilogo della sua vita, quando uscì per andare nel campo dove solitamente dipingeva, ma senza valigetta, cavalletto, né pennelli. Solo. Portò con sé una Lefaucheaux calibro 7, anch’essa in mostra nell’ultima sala espositiva; un macabro, terminale, commovente e pietoso brivido per il visitatore.

Helene iniziò nel 1908 a collezionare principalmente opere di Van Gogh (la sua è la seconda collezione al mondo per numero di opere dell’Artista), e successivamente anche di Pierre-Auguste Renoir, Paul Gauguin e Pablo Picasso, presenti in questa esposizione con le opere, nell’ordine, Au Café, Atiti La Madrilena.

Molte parole, foto e documenti, in questa mostra, tra cui parte della corrispondenza tra Vincent ed il fratello Theo, in gigantografie delle lettere originali che testimoniano le fasi sia artistiche che psicologiche del travaglio dell’Artista.

Ci accoglie una frase di Vincent, una delle molte proiettate sulle pareti dell’esposizione, che però appare qui come incisa, tanto è il suo peso ed il monito al visitatore: “Quanto sbaglia l’uomo che non si considera piccolo, che non si rende conto di non essere che un atomo”

“Vecchio che soffre”, tratteggiato a matita, pastello litografico nero e acquarello bianco opaco su carta (tecnica che adoperò frequentemente durante il suo primo periodo), 1882, forse visto in un libro di Charles Dickens.

In una tabella si legge la sintesi stringatissima del suo percorso evolutivo dalla matita al colore, e, oltre, la ricerca del “senso moderno del colore”. Si legge: “In Olanda approfondisce il disegno e il chiaroscuro. A Parigi affronta il tema del colore. Ad Arles si dedica alla luce colorata. A Saint-Rémy approfondisce l’espressività del tratto”.

Voleva diventare illustratore, inizialmente si dedica al disegno, dice: Il disegno è il fondamento di tutto, perciò per i suoi primi disegni utilizza tecniche semplici: gessetto, matita, penna, poco acquarello. “Bisogna essere in grado di passare dalle luci più alte alle ombre più profonde, e farlo con pochi e semplici ingredienti”.. che a volte non si riesce a dedurre quali siano, perché spesso combina, oltre a tecniche miste, anche materiali mescolati tra loro: matita, latte per fissare, pastello litografico, inchiostro ferrogallico, china, nerofumo, penna.

Presente solo una litografia su carta velina per “I mangiatori di patate” (la versione olio su tela è al Van Gogh Museum di Amsterdam), preparato e dipinto a Nuenen nel 1885, che egli stesso descrisse come il dipinto “migliore di tutta la mia produzione” (considerato realmente la sua prima opera importante), probabilmente, oltre che per la conquista parziale del colore, ancora scuro, per i soggetti ritratti, nei volti e nei gesti dei quali Vincent esprime la sua partecipazione al mondo rurale, al lavoro agricolo e alla fatica rassegnata e sublimata dei contadini, visibile anche nelle opere “Donne nella neve che portano sacchi di carbone” 1882, dai toni ancora poco accesi, in gessetto, pennello a inchiostro e acquerello opaco, e “Il seminatore al tramonto” 1888, ormai in pieno uso dei colori forti, entrambe le opere in mostra.

Tuttavia, ci mancano tanto i Girasoli, ritratti sette volte, 5 visibili a Londra, Amsterdam, Monaco di Baviera, Philadelphia e Tokyo;  gli Iris, in vaso su sfondo giallo o su sfondo rosa o nei cespugli in primo piano nei campi… E il Ritratto del Dottor Gachet, che lo curava, dipinto per gratitudine; la Camera da letto, anche detta La camera di Vincent ad Arles, nelle sue differenti versioni; il Campo di grano con volo di corvi, dipinto un mese prima della morte (in mostra, invece, il Covone sotto un cielo nuvoloso, che ne sembra una variante, anche introspettiva). Ma, ancor più delle altre comunque inarrivabili e commoventi opere, ci è mancata la Notte stellata sul Rodano, custodita al MōMA di New York, manifesto dell’intensità emotiva di Van Gogh tanto da ispirare la composizione di un “gioiello acustico”, tale è il brano musicale Vincent, noto anche come Starry, starry night, di Don McLean, una poesia struggente, dipinta sul pentagramma con i colori dell’animo di Vincent.

  • Dei 37 o più Autoritratti (“cerco una rassomiglianza più profonda di quella che raggiunge il fotografo”, diceva Vincent) soltanto uno è presente in mostra. Ed è un’apparizione. Unica opera in una sala magnifica e semibuia, ampia; ti accoglie direttamente, vis-à-vis, ti guarda negli occhi, anzi, nell’anima. Il suo sguardo ti interroga, dei tanti interrogativi che forse non ti sei mai posto. Perciò, nel suo tempo, non fu compreso. “Anche la mia vita è intaccata alla radice”, aveva detto pochi anni prima di quell’ultima opera, incompiuta, “Radici d’albero”, dipinta en plein air nella campagna che poche ore dopo lo vedrà chiudere gli occhi per sempre. “Un biglietto d’addio a colori”, hanno scritto. Nel suo stile. Tutto aveva una dimensione reale e, insieme, uno slancio introspettivo. Un “realismo spiritualizzato”. Lucido e geniale, credente ed egodistonico. Ha arricchito l’arte con intensità di emozioni e di colori. Vale la pena di incontrarlo. A Palazzo Bonaparte.
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