giovedì, 18 Aprile, 2024
Manica Larga

Culle vuote: per colpa di chi?

La pubblicità in prime time rende bene l’idea. Certo, si obietterà, le nuove generazioni sono ormai altrove, tipo sui social. Si potrebbe riflettere allora sul perché in Italia il sindacato forte sia quello dei pensionati. Tuttavia, se ancora non dovesse bastare, se due indizi non fanno una prova, ci aiutano i dati. Secondo un recente rapporto ISTAT il saldo demografico italiano è negativo. Infatti, nel 2022 si sono registrate 392mila nascite, ovvero 7mila in meno rispetto al 2021, a fronte dell’elevato numero di decessi, 713mila. Nella sua analisi, l’istituto nazionale di statistica ipotizza che “il contesto della crisi sanitaria ancora presente nel 2021 e le conseguenti incertezze economiche potrebbero avere incoraggiato le coppie a rimandare ancora una volta i loro piani di genitorialità”. Tuttavia, andrebbe precisato che la genitorialità non si esaurisce nel mettere al mondo un figlio, perché procreare non vuol dire mettere su famiglia. E qui i nodi vengono al pettine.

Come spiega alla BBC Maria Letizia Tanturri, professoressa di Demografia all’Università di Padova, intervistata per lo speciale Italy’s low birth rate, seppur all’origine del problema ci sia una molteplicità di fattori, il punto chiave resta l’assenza di supporto per le madri sul posto di lavoro. I bambini sono considerati come una questione privata e le madri occupano un ruolo preciso che è quello di restare a casa. E questo sarebbe confermato dal basso livello di partecipazione delle donne al mercato del lavoro. Si pensi al disallineamento tra orari scolastici e quelli lavorativi e alle conseguenze che questo comporta sulle fasce più deboli perché sono quelle che non possono accedere a forme di assistenza privata come pagarsi una babysitter, per esempio, e quindi sul numero di mamme che alla fine si vedono costrette a licenziarsi o essere licenziate.

Questione di modelli culturali. E di scelte

Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, si tratta di una fotografia che è perfettamente in linea con il modello basato sulla divisione dei ruoli familiari tipico delle culture sud-europee, come spiega Minouche Shafik, direttrice della London School of Economic and Political Science e futuro presidente della Columbia University con un passato da vice presidente della Banca Mondiale, vicedirettore generale del Fondo Monetario Internazionale e vice governatore della Banca d’Inghilterra, nel suo libro Quello che ci unisce. Un nuovo contratto sociale per il XXI secolo. Non a caso, tipico di queste culture, l’intervento dello Stato è minimo e si esplica attraverso l’elargizione di benefici monetari, come i bonus.

Seppur esistano imprenditori eroici che cercano di andare contro corrente con forme di welfare ad hoc, tutto questo ha un impatto economico e sociale profondo. Come infatti spiega nel suo libro la Shafik, i bambini di famiglie che non riescono a prendersene cura adeguatamente saranno quelli con le maggiori difficoltà a scuola e nel mondo del lavoro. Senza considerare poi il fatto che, da un lato, aiutare le donne a esprimere il proprio talento sul posto di lavoro comporterebbe un incremento dell’output economico e della produttività con conseguenti benefici fiscali da reinvestire nei servizi pubblici di assistenza per l’infanzia; dall’altro, un padre più presente a casa contribuirebbe ad allevare una nuova generazione più produttiva con ricadute positive in ambito pensionistico.

Per questo sfugge il clamore sollevato dai dati dell’ISTAT che appaiono come la logica conseguenza di un modello culturale. Perché delle due l’una: o si sceglie un approccio per cui l’intervento dello Stato è minimo e la famiglia resta centrale nessi o connessi, inclusa per paradosso la denatalità; oppure si decide di adottare un approccio per cui lo Stato  diventa centrale per mettere gli individui, soprattutto le donne, in condizioni di essere liberi di contribuire alla società mettendo a pieno frutto i propri talenti, ivi compreso metter su famiglia.

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