venerdì, 19 Aprile, 2024
Il Cittadino

Aspettando Godot

I governi succedutisi in Italia in questi ultimi trent’anni hanno tutti deluso: senza distinzione tra quell’apparente alternanza tra centrodestra e centrosinistra, con inserimenti di governi “tecnici”, caratterizzati comunque dalla garanzia di una continuità nel non realizzare le riforme dichiarate, con raro conformismo, necessarie e indifferibili.

L’unica consolazione è che questa constatazione, di per sé triste, mi riporta ai miei anni giovanili. Non perché da giovane vivessi delusioni – all’epoca, anzi, sognavo di potere ribaltare le cose, cambiando il mondo assieme a quelli della mia generazione (illusione, quindi, il sentimento predominante) – ma perché ero, all’epoca, un cultore appassionato del così detto “teatro dell’assurdo”, con Ionesco sul comodino.

Così questo parlare che si fa continuamente su temi che sono sempre gli stessi, chiunque sia al governo e chiunque simuli un’opposizione che non è nelle corde della politica italiana; questo declamare temi identici da riformare senza mai dire come e, soprattutto, senza proporre una soluzione fattibile; questo affermarsi di voler fare e di non fare invece nulla; questo determinare l’attesa del nulla, mi hanno fatto rivivere – ecco il mio annunciato ritorno alla gioventù – quel formidabile capolavoro  di Samuel Beckett, Aspettando Godot (Attendant Godot nel titolo originale, in francese).

Una scena surreale, inidentificabile (qualsiasi luogo), col passare del tempo scandito da un albero che perde le foglie e con due soli protagonisti sulla scena, Vladimiro ed Estragone.

Due barboni, due vagabondi (il contesto non li definisce meglio) che, aspettando un certo Godot, con banalità e molti luoghi comuni discorrono su molteplici argomenti, con un dialogo che alla fine è senza senso ed annoia lo spettatore: fino all’irritazione, perché veramente si assiste ad una concatenazione di luoghi comuni e ad una rappresentazione in cui non succede niente (salvo una breve apparizione di altri due personaggi rappresentanti, grottescamente, il capitalismo ed il proletario; e la comparsa, alla fine, di un ragazzo che annuncia che Godot non sarebbe arrivato).

Un dialogo fine a se stesso, in cui non ci sono punti fermi, né certezze culturali, e dal quale emerge solamente la perdita di fiducia nella vita stessa.

L’analisi critica dell’opera ammonisce di non farsi ingannare dal vuoto del dialogo, perché Vladimiro ed Estragone non sono amici, non hanno affetto reciproco – anzi c’è una dichiarata indifferenza che si manifesta nel non voler conoscere il sogno dell’altro, che si era addormentato durante il parlare del nulla  – ma vivono nel reciproco bisogno che uno ha dell’altro per dare un senso al proprio essere.

E quindi parlano, parlano, aspettando per l’intera durata della rappresentazione un misterioso Godot di cui nulla si dice e nulla si sa: al punto che lo stesso Beckett, richiesto in una intervista di chi fosse Godot, dichiarò: «Se l’avessi saputo l’avrei descritto nell’opera».

Una situazione che mi riporta molto a quella, politica, della Seconda Repubblica.

Centrodestra e centrosinistra hanno un senso solo perché l’esistenza dell’uno giustifica quella dell’altro e perché l’alternanza consente quell’alibi che maschera il reciproco non fare niente: l’Italia è immobile non perché il governo in carica non è capace di incidere sulla società con la sua azione, ma perché il governo precedente ha determinato una situazione che non consente di operare al meglio.

Così i temi che sono gli stessi per entrambi gli schieramenti, rimangono immutabili, nel pieno potere dei “mandarini di Stato”, una classe non codificata, non individuata, fatta di singoli intercambiabili che gestiscono complicati meccanismi ignoti agli uomini comuni e, soprattutto, sconosciuti ai politici.

Sulla semplificazione burocratica si è tutti d’accordo (anche se non si dice in cosa consiste) e nessuno la attua; la burocrazia imbavaglia sempre di più qualsiasi attività, persino quelle con finalità ecologiche.

La Giustizia, per tutti (tranne ANM, che è ben lieta dell’anomalia del primato del potere giudiziario su quello legislativo ed esecutivo) è da riformare, ma nessuno ci mette veramente mano.

L’evasione fiscale è una piaga: la si combatte sempre, si inaspriscono leggi e si vessano i cittadini con norme astruse e presunzioni contro di essi, ma le tasse le pagano sempre e solo gli stessi. Sempre e solo contro questi lo Stato si accanisce, sia di centrodestra o di centrosinistra.

Idem per la ultra trentennale lotta alla mafia, dichiarata, assistita da una legislazione punitiva e coercitiva che non ha eguali al mondo, al limite della costituzione (qualche volta a mio avviso anche oltre, come nel caso del carcere duro e dell’ergastolo ostativo), e mai vinta. Per la verità, secondo il mio sentire, mai veramente combattuta, perché la magistratura non è l’arma giusta, dovendo aspettare il giudice la commissione del reato per intervenire, laddove solo un’azione sociale e culturale, la creazione di un modello di vita alternativo – quindi una forte azione politica – potrebbe vincerla.

E si continua a parlare, un blabla continuo e senza senso, al massimo finalizzato ad un piccolo vantaggio al proprio elettorato: la flat tax per piccoli autonomi, se guida il centrodestra; o qualche privilegio per il pubblico impiego se il pilota è di centrosinistra.

Intanto l’Italia si incarta sempre di più su stessa, si lega inesorabilmente, mantenendo uno schema inattuale e aspettando vanamente Godot, qualsiasi cosa questo nome significhi e in qualsiasi modo egli si pettini i capelli: per chiudere così con un altro riferimento al teatro dell’assurdo, a quella cantatrice calva di Ionesco, mai neppure citata nella commedia ad essa intitolata (“disperatamente assente”), salvo che nella battuta finale, quando finalmente qualcuno chiede di lei: «ah, quella? Si pettina sempre allo stesso modo».

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