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A fired employee due to the crisis opens showing his empty wallet.

Autonomi in caduta libera: redditi giù del 30% e rischio povertà al 22,7%

Le famiglie con capofamiglia lavoratore indipendente vivono condizioni più difficili rispetto a quelle con un dipendente: i dati Cgia-Istat segnalano una crescente esclusione sociale
domenica, 6 Aprile 2025
2 minuti di lettura

Il lavoro autonomo in Italia, spesso considerato simbolo di indipendenza e flessibilità, nasconde in realtà un volto sempre più fragile e precario. A lanciare l’allarme è l’Ufficio studi della Cgia, che ha elaborato i più recenti dati Istat sulla condizione economica delle famiglie italiane. E il quadro che ne emerge è preoccupante: il 22,7% dei nuclei con a capo un lavoratore autonomo è a rischio povertà o esclusione sociale, una percentuale nettamente superiore al 14,8% rilevato tra le famiglie guidate da lavoratori dipendenti. A peggiorare la situazione, negli ultimi due decenni, è stato un progressivo impoverimento del reddito degli autonomi: secondo la Cgia, dal 2003 a oggi il calo è stato del 30%, contro una diminuzione più contenuta dell’8% per i dipendenti, mentre per i pensionati i valori sono rimasti sostanzialmente stabili. A tutto ciò si aggiunge un fattore strutturale: la quasi totale assenza di ammortizzatori sociali, che rende i lavoratori autonomi ancora più esposti agli shock economici e alle crisi congiunturali.

Il dato sulla povertà non è soltanto un riflesso del reddito dichiarato, spesso oggetto di sospetti su possibili sottostime, ma è un indicatore complesso, che comprende più fattori: rischio povertà, grave deprivazione materiale e sociale, e bassa intensità lavorativa. Tutti elementi che, combinati, fotografano una condizione reale e quotidiana di disagio.

Il peso della fragilità economica

Basti pensare che in Italia ci sono circa 5,2 milioni di lavoratori autonomi, di cui quasi la metà operano in regime forfettario, ovvero con un fatturato annuo inferiore a 85mila euro, senza dipendenti e senza una struttura imprenditoriale vera e propria. Sono giovani, donne, over 50, spesso del Sud Italia, che svolgono piccole consulenze o microattività. E spesso fanno fatica a farsi pagare. Per molti di loro, la vita è un equilibrio precario tra bollette da saldare, clienti in ritardo e assenza di tutele. Paradossalmente, anche dinamiche apparentemente lontane dal mondo delle micro-partite Iva, come i dazi imposti dagli Stati Uniti, potrebbero ricadere sui lavoratori autonomi italiani. Sebbene questi non siano direttamente coinvolti nelle esportazioni, eventuali effetti negativi sull’economia italiana – come un aumento dell’inflazione o un calo della domanda interna – potrebbero colpire proprio i soggetti più deboli: gli autonomi con redditi già al limite.

Da qui l’appello degli analisti della Cgia: servono misure per rilanciare la domanda interna, a partire da un uso efficace delle risorse del Pnrr, e una riduzione della pressione fiscale su famiglie e microimprese. Solo così si può sperare di ridare ossigeno a una categoria che rischia di essere travolta dal silenzio e dall’indifferenza.

Il Sud resta indietro

Il fenomeno della povertà o dell’esclusione sociale tocca profondamente anche la questione meridionale. In Italia, secondo i dati Istat, 13,5 milioni di persone si trovano in questa condizione, ovvero il 23,1% della popolazione. Di questi, oltre 7,7 milioni risiedono nel Mezzogiorno. La regione con il numero assoluto più alto di persone a rischio è la Campania (2,4 milioni), seguita da Sicilia (1,9), Lazio (1,5) e Puglia (1,46). Ma se si guarda alla percentuale sulla popolazione totale, il dato più drammatico arriva dalla Calabria, dove quasi una persona su due (48,8%) è in condizioni di disagio economico. Un Sud sempre più impoverito, dove le partite Iva rappresentano spesso l’unico sbocco lavorativo, soprattutto per giovani e donne.

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