giovedì, 19 Dicembre, 2024
Lavoro

La criticità del COVID sul diritto dei contratti

La pandemia nel settore giuridico e, segnatamente, nel diritto dei contratti, ha determinato e determina l’insorgere di gravi problemi, se è vero che, in tale settore, ha dato luogo e dà luogo, fra l’altro, a gravi squilibri nei contratti in corso di esecuzione.  

Sotto questo aspetto la pandemia integra, senza meno, la fattispecie dell’evento straordinario e imprevedibile, che sovente rende eccessivamente onerosa la prestazione e legittima, dunque, il soggetto che deve la prestazione a chiedere ed ottenere la risoluzione del contratto ai sensi dell’art. 1467 del cod. civ., anche perché non vi è dubbio che, spesso, l’eccessiva onerosità supera l’alea normale del contratto. 

È vero che la parte, contro cui è chiesta la risoluzione del contratto, ha la facoltà di evitarla offrendo di modificare equamente le condizioni dell’atto contrattuale; ma questa è solo una facoltà, che il soggetto può anche non   esercitare. 

Ora, nelle ipotesi la richiamata facoltà non viene esercitata, il soggetto, che subisce la risoluzione, può risentire un danno derivante dalla perdita di un affare importante.

Il nostro codice, peraltro, adombra un’altra soluzione in materia di appalto,  visto che l’art. 1664 del cod. civ., in presenza di sopravvenienze, prevede dei meccanismi di recupero idonei a riequilibrare automaticamente il contratto e, dunque, a scongiurare la risoluzione.    

Per risolvere i problemi, che sorgono nei casi di fattispecie contrattuali diverse dall’appalto e nelle ipotesi in cui il soggetto, che subisce la risoluzione non offre di ridurre ad equità il contratto, sono state avanzate diverse soluzioni, che, però, non sembrano del tutto persuasive. 

Ad esempio, è stata avanzata la tesi secondo cui le parti, in presenza di sopravvenienze, siano tenute a rinegoziare il contratto. Tale soluzione –elaborata, peraltro in altri contesti giuridico-culturali- dagli operatori giuridici italiani, viene desunta dalle norme, che prevedono a carico dei contraenti di comportarsi secondo buona fede o correttezza. Ed è stata anche richiamata l’equità, che l’art. 1374 del cod. civ., contempla quale fonte di integrazione del contratto.

Tale soluzione, tuttavia, non sembra plausibile, se si considera che uno dei cardini del nostro diritto dei contratti è la libertà contrattuale, senza contare che non si comprende bene cosa dovrebbe accadere nelle ipotesi in cui le parti non raggiungono un accordo, in ordine al contenuto del contratto da rinegoziare. A meno che non si pensi che, in questi casi, possano intervenire le Corti, emettendo una sentenza simile a quella contemplata dall’art. 2932 del cod. civ.. Sennonché tale norma presuppone l’esistenza di un contratto preliminare, vale a dire una pattuizione che nell’ipotesi della rinegoziazione è assente.  Si tratta, dunque,  di una soluzione, che finisce per radicare nei giudici un potere eccessivo. Senza contare che, in assenza di un accordo tra le parti, ancora una volta, si pone di determinare quale dovrebbe essere il contenuto del contratto oggetto dell’esecuzione in forma specifica di cui alla norma appena richiamata.

La soluzione, che è sembrata maggiormente praticabile, è quella che propone di estendere la portata precettiva, della richiamata norma, dettata in tema di appalto, che come si è visto, prevede un meccanismo di riequilibrio automatico del contratto, scongiurando così il ricorso al rimedio della risoluzione. 

Ancora, si potrebbe interpretare la norma, di cui all’art. all’ut. co. dell’art. 1467 del cod. civ., che prevede la facoltà della parte contro cui è richiesta la risoluzione di ridurre ad equità il contratto, non più come una libera scelta, bensì come un dovere.

Tuttavia, entrambe le soluzioni, da ultimo adombrate, danno luogo a molteplici problemi, se è vero che esse si discostano dalla regola enunciata dal 1° co. dell’art. 12 delle preleggi, il quale prescrive che alle norme occorre attribuire il significato fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse, e dalla intenzione del legislatore.

È vero che le teorie interpretative hanno messo in luce che l’attività ermeneutica deve adeguare le norme alla realtà socio- economica, che muta e si evolve. 

Allora, il problema diventa quello di stabilire gli incerti limiti, entro i quali si può fare ricorso alla interpretazione evolutiva. 

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