lunedì, 25 Novembre, 2024
Cultura

Summertime jazz è regina d’estate. Tre concerti superlativi

Senza dubbio un successo acclamato da pubblico e critica: questo il bilancio conclusivo del Summertime jazz 2023.

Ma Summertime jazz 2023 è qualcosa di più, è una fonte di emozioni che tenteremo di raccontare attraverso tre concerti emblematici di questo cartellone che si conferma tra i più interessanti nel panorama musicale internazionale. In questa estate tanto attesa per il ritorno pieno dell’arte alla sua libertà espressiva, dopo le catene che lungamente hanno impedito l’incontro tra artisti e pubblico, il jazz assume un valore catartico ancora più forte. Lo dimostrano i successi raccolti in tutta Italia che questa musica, nata su dita dolenti, che urlavano ciò che il labbro doveva serrare nel silenzio. Lo dimostra il Summertime jazz, icona ed emblema dei festival del jazz a livello internazionale. Del suo vasto cartellone, che ha richiamato a se i più grandi artisti del genere, ho seguito tre concerti che possono considerarsi rappresentativi di diversi tratti stilistici e che coprono un arco temporale altrettanto emblematico e che, coinvolgono eccellenze internazionali, offrendo uno scorcio sul mondo sconfinati dell’arte musicale.

Il primo concerto seguito è stato quello di Enrico Rava, con Aldo Romano, Baptiste Trotignon e Darryl Hall. Enrico Rava è uno dei padri fondatori del jazz europeo, architrave fondamentale della musica jazz, che per questo concerto ha raccolto attorno a sé un ensemble franco-italiano: l’immenso Aldo Romano, uno dei più illustri batteristi italiani residenti in Francia, il pianista francese Baptiste Trotignon e Darryl Hall, contrabbassista franco-americano che ha suonato con alcuni dei più importanti musicisti europei di jazz. Il trait d’unione tra i tre concerti sarà proprio Aldo Romano, per la versatilità che non corrompe la sensibilità e per la stessa storia della sua vita: italiano trasferito presto in Francia, collabora con musicisti tra loro diversissimi come Don Cherry e Michel Petrucciani, con cui ha inciso il tuo famoso brano “Pasolini”, che è stato anche arrangiato per grande orchestra grazie a Lionel Belmondo. Aldo Romano è il nostro ponte musica, cinema e poesia, come mostra l’album che dedicò a Cesare Pavese, e come conferma l’apertura del concerto alla casa del jazz, in cui il batterista ha recitato la poesia “Abitudini” di Pavese. Del resto in Italia Aldo Romano era un frequentatore di Pasolini, Bertolucci e Gianni Amico, a cui si deve la prima regia di un film in presa diretta sul jazz (Appunti per un film sul jazz, 1965, Bologna, 16 mm) girato durante il festival del jazz a Bologna. Il concerto nel parco scorre come reazione tra i quattro componenti non può che determinare: sono lapilli che via via si incendiano, e i versi di Pavese sono scintilla e spinta sulle dita che iniziano ad appiccare fuochi con gli strumenti. Enrico Rava accende lento la tromba, poi si fa sinuoso, via via diventa fiamma invadente e viva, galoppa contro le distanze e diventa un “addosso” che avviluppa il pubblico. È un fuoco che consuma via via che cresce e può farlo proprio grazie ad Aldo Romano, alla creatività che è sempre rilancio, ossigeno sulle braci. L’equilibrio è perfetto, come solo in casi di grande consapevolezza di sé, perché nessuno resta in ombra, tanto Baptiste Trotignon, che emerge a tratti come una stele, diventando protagonista di quel momento sul palco, quanto Darryl Hall, che diventa quasi un basso continuo, tessitore dell’intera partitura concertistica.

Il secondo concerto ha per protagonista un altro signore indiscusso del jazz: Paolo Fresu con Omar Sosa in “Food”. Il concerto è inoltre presentazione del disco “Food” che vuole indagare sul piacere del gusto, della convivialità, della scoperta e del dialogo ma anche sull’importanza di una sana alimentazione oltre che riflettere sulla situazione globale del cibo nel pianeta e sulla sua precaria sostenibilità. Tutto questo, grazie ad una delle formazioni in grado di cambiare, oggi, il modo di “sentire” la musica. Un progetto coraggioso che vuole dare luce, con la musica, ad un argomento di estrema attualità e sentito da tutti. Questo secondo concerto è un’esperienza poli-linguistica, in termini musicali, in cui si indaga il significato del cibo, di cosa è cibo, di cosa raccoglie intorno a sé, mestieri e commensali, e la centralità di un bisogno che assume le più varie declinazioni, fino ad una fame spirituale universale.

Paolo Fresu,la cui arte non ha bisogno di presentazioni, con questi album conferma idealmente quanto evidenziato dalle motivazioni per cui gli è stata conferita la laurea honoris causa in psicologia dei processi sociali, dall’Università di Milano Bicocca, usando la musica come strumento di aggregazione tra diverse culture e fonte di benessere, quindi di nutrimento. Se Fresu è altresì un ponte per il cinema, di cui ricordiamo le colonne sonore realizzate per registi del calibro di Ermanno Olmi e Costanza Quatriglio, Omar Sosa è un pianista che ha nelle dita un arcobaleno di colori, capace di suonare una musica poliglotta. Questo concerto è stata un’esplosione immediata di suoni, voci, colori, proprio come intorno ad una tavola imbandita a festa e, al contempo, come intorno a una mensa stremati e affamati dopo un lungo viaggio. I brani hanno espresso fame e sete, gridato vite e via via saziato dell’urgenza, fino a concedere il momento in cui, benedetto pane, si prega e si ascolta la fame dello spirito. È a questo punto che Paolo Fresu e Omar Sosa sono diventati sottili e penetranti come un raggio di luce da vetrate oscure; le loro note sono diventate lunghissime e alte, quasi ascetiche, per ricordarci che tutto è anima.

La nostra ultima artista è Frida Bollani Magoni, figlia d’arte (perché inevitabile raccontarlo dati i natali) di cui non starò a ricercare volutamente analogie genitoriali, ma cercherò di tratteggiare l’individualità che ogni artista merita. Frida sale sul palco scalza e questa ricerca di contatto nudo con il palco e il pianoforte, seppure non unico, trovo sia seducente e per un giovane artista forse ancor più necessario, per guadagnare quel rapporto carnale con l’arte che è fondamento di ogni conoscenza.Frida Bollani Magoni, figlia d’arte, nasce in Versilia il 18 settembre 2004. Da sempre immersa nel mondo dei suoni e della musica comincia a studiare regolarmente pianoforte classico all’età di 7 anni sotto la guida del maestro Paolo Razzuoli, che le insegna la notazione musicale in Braille. Ha collaborato più volte con l’Orchestra Operaia di Massimo Nunzi (Jazz Big Band) sia come cantante che come pianista esibendosi all’Auditorium Parco della Musica di Roma. La voce di Frida è molto interessante, sia per la versatilità, sia per una certa tendenza alla polifonia che ricerca sia con la propria tecnica vocale, sia con l’ausilio di nuove tecnologie (moltiplicatori di voce) che, se non abusate, possono avere una loro ragione d’essere.
La sua capacità di tenere il palco è buona e sebbene sia molto giovane, risulta sempre presente e mai smarrita. Il pianoforte è il suo mondo svelato e si sente; anche la voce mentre suona è più consapevole e riesce ad imporsi con originalità creativa. Ha presentato alcuni suoi pezzi in cui trovo una dolcezza malinconica, a tratti una tristezza, ma mai disperante, una sete di vita che è un presagio di futuro che sa conquistare e fare sperare. Anche nelle cover Frida è originale senza essere irrispettosa mai e la performance onora tanto l’autore quanto l’interprete. Il futuro che auspico per l’arte è esattamente questo: artisti che sappiano portare avanti il patrimonio artistico e arrampicarsi su questo per esprimere la loro propria unicità e farsi, a loro volta, storia e testimone dell’eterno cammino dell’arte.
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