domenica, 17 Novembre, 2024
Il Cittadino

Il livello di inciviltà

Vi assicuro, miei fedelissimi quaranta lettori che, nell’esercizio più divertente di questa mia lunga avventura giornalistica (la ricerca dell’argomento da proporre alla vostra attenzione), ho cercato qualsiasi alternativa, pur di non parlare anch’io di Cospito, del suo sciopero della fame e del regime carcerario del 41-bis.

Niente, non ci sono riuscito. Ho rinunciato definitivamente alla ricerca di altri temi allorché ho avuto la notizia che in un altro carcere del mondo – presumo più crudele e meno rispettoso dei diritti e della dignità umana, anche rispetto al nostro incivile “carcere duro” – un altro detenuto aveva cominciato uno sciopero della fame.

Mi riferisco all’Iran ed al regista iraniano Jafar Panahi, noto al pubblico mondiale per i suoi lavori cinematografici, premiati a Cannes e a Berlino: qui con l’Orso d’Oro per “Taxi Teheran”.

Tralascio il pretesto per il suo arresto (perché a quel sistema giudiziario basta un pretesto per mettere in catene un uomo), irrilevante ai fini del mio discorso. Perché quello che mi interessa qui sottolineare è il fatto che il detenuto Panahi, dopo avere tentato di far rispettare i propri diritti con mezzi legali ha deciso di protestare «contro questi comportamenti disumani con ciò che ho di più caro, che è la mia vita». Cominciando così uno sciopero della fame, come unica forma di protesta possibile, propagandato via Instagram dai familiari. Con la drammatica consapevolezza che in tal modo «sarà il mio corpo senza vita a uscire dalla prigione. Con l’amore per l’Iran e la gente del mio Paese».

Un caso che io trovo del tutto simile allo sciopero della fame dichiarato e praticato da Cospito, che è riuscito così a porre all’attenzione pubblica il problema dell’incivile, disumano e incostituzionale regime carcerario del 41-bis, introdotto 31 anni fa (nel 1992, dopo la strage di Capaci) come rimedio emergenziale e temporaneo; rimasto in vigore, con estensione anche a reati diversi dalla mafia.

Sciopero della fame, unica protesta possibile dal carcere duro, che il conformismo culturale dell’informazione, salve rare voci dissonanti, ha fatto passare in secondo piano.

Il dibattito si è, infatti, incentrato sulle ragioni della condanna di Alfredo Cospito, sull’opportunità e sulla congruità della punizione per lui del carcere duro. Finché, via via che il clamore della sua denuncia e la drammaticità della sua situazione di salute crescevano – con le manifestazioni studentesche e, purtroppo, anche con proteste molto forti da parte di gruppi anarchici – si è discusso sul concetto che lo Stato non può dimostrare debolezza e non può trattare.

Tantomeno con la mafia: argomento sempre efficace che giustifica la qualunque, evocato in Parlamento nel vaniloquio dell’On. Donzelli, colpito da improvvisa ingenuità.

Così che è tornata d’attualità pure la trattativa tra mafia e Stato (ipotizzata come madre di tutte le rovine d’Italia, ma dichiarata inesistente dalla magistratura), con i conseguenti irrigidimenti di posizioni e le ipotesi più suggestive (alleanza mafia-anarchia, no, non l’avevo considerata…); e con l’unico simulacro di umanità di spostare Cospito ad un carcere che oltre trattenerlo al 41-bis ha anche la possibilità di curarne il corpo se dovesse aggravarsi; e con addirittura l’anticipazione di una discussione in Cassazione (questo sì, un autentico miracolo accaduto a Piazza Cavour).

Il problema posto dallo sciopero della fame per protesta contro l’istituto del 41-bis attuato da Cospito è in tal modo completamente ignorato.

Tutto sembra essersi ridotto in un esercizio muscolare con l’intelligenza messa da parte: laddove, secondo il mio come sempre opinabile avviso, il problema non era se trattare, ma di mostrare il livello della nostra civiltà.

L’accostamento da me fatto allo sciopero della fame del regista iraniano Jafar Panahi potrà essere sembrato irriverente, perché il nostro Stato di diritto non può minimamente essere paragonato al regime degli ayatollah iraniani. Non l’ho fatto per dileggiare la Patria, ma per porre in evidenza come in certe situazioni lo sciopero della fame sia l’unico e ultimo strumento di protesta.

Marco Pannella era un digiunatore abituale per protesta: e l’Italia tutta deve essergli grata per i suoi scioperi della fame, che hanno fatto anche sorridere, che spesso non erano presi sul serio, ma che sono stati fondamentali per la modernizzazione della società della seconda metà del Secolo scorso.

Il regime carcerario italiano mostra un grado preoccupante d’inciviltà.

Lo testimonia il numero spropositato di suicidi, eccessivo anche nel carcere ordinario.

Lo attesta e lo certifica soprattutto la previsione di una ancora più incivile ed inumana forma di detenzione, quella del 41-bis, che non dovrebbe essere consentita verso nessuno, di qualsiasi nefandezza o mostruoso delitto possa essersi macchiato: perché il delinquente può essere disumano, lo Stato no, specie se vuole essere forte.

Permane la possibilità giuridica di morire in carcere: la pena dell’ergastolo – anch’essa a mio avviso incostituzionale – prevede che il condannato sconti la galera fino al momento del suo decesso. Ma il problema posto dallo sciopero dell’anarchico Cospito non è se egli possa morire in carcere, ma se lo Stato possa trattarlo in maniera inumana e possa assistere inerme al suo lasciarsi  morire.

Il rischio molto grande che lo Stato corre è di fare di Cospito un’eroe dell’anarchia.

È un rischio che non vorrei si attuasse. La morte potrebbe trasformarsi in un simbolo, come negli Usa degli anni ‘20, la fine degli anarchici Sacco e Vanzetti: «Una tale agonia è il nostro trionfo!».

Magari, al di là del merito della condanna, anche ispirando la composizione di una ballata da parte di un novello Morricone, con una novella Joan Baez a scrivere e cantare i testi per quella musica:

«Here’s to you, Nicola and Bart / Rest forever here in our hearts
The last and final moment is yours / That agony is your triumph».

Insomma: la vicenda misurerà il nostro livello di civiltà. O di inciviltà.

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