giovedì, 18 Aprile, 2024
L'angolo della Lettura

A Primavera tornerà l’amore (Un Racconto ispirato a una storia vera)

Quarta Puntata

 

Nei giorni che seguirono, la notizia di quella morte così tragica e improvvisa gettò nello sconforto non solo Pizzo Falcone, i parenti e gli amici ma l’intero paese che, incredulo, non riusciva a spiegarsi il motivo di quel tremendo suicidio.

Ma il dolore più forte e lo strazio più indicibile, furono avvertiti in Via Venita. Era lì, proprio sotto il campanile della Chiesa Madre, che abitava Esterina, la sua fidanzata. Una bella ragazza sui trent’anni, di bella presenza, dall’animo buono e con un  carattere mite. Del suo aspetto fisico, quello che colpiva di più erano i suoi capelli. A sentire le mamme e le amiche di Pizzo Falcone, la sua lunga chioma, per colore e brillantezza, era tra le più belle del paese. Lei, Esterina, era un po’ diversa dalle  ragazze di Pizzo falcone. Aveva alle spalle tutta un’altra storia. Viveva da tempo a Ferrandina, ma era nata e cresciuta in un altro mondo, o per essere più precisi, nel Nuovo Mondo. Era nata in America, a Boston e lì aveva trascorso la sua infanzia fino all’età di undici anni. Verso la fine dell’Ottocento i suoi genitori erano emigrati a New York.

Dopo pochi anni si erano trasferiti nel vicino Massachusetts e lì, a Boston, nel 1911, nacque Esterina, ultima di sette figli. La vita, però, come spesso accade, proprio nei momenti più belli, giocò alla sua famiglia un brutto scherzo. Nel 1922, proprio nell’anno dell’avvento del fascismo in Italia, il padre si ammalò. Prima una bronchite, poi una sospetta polmonite. Sta di fatto che la sua salute incominciava a vacillare. Forse il clima troppo freddo, l’aria, il ritmo  sempre veloce e stressante della vita americana. La prospettiva di vederlo morire proprio lì in America, terrorizzò un po’ tutti nella sua famiglia; la moglie, Marietta, i figli, ancora troppo giovani per vedersi privati del loro papà. La paura e il rischio erano troppo alti per restare in America.

E allora, con tanto rammarico nel cuore, presero una drastica decisione. Sarebbero ritornati in Italia. Lì a Ferrandina avevano ancora la casa, la vigna, la cantina. E poi Ignazio, il figlio più grande, aveva imparato a Boston il mestiere di mugnaio. Non avrebbe avuto nessuna difficoltà ad avviarne uno anche a Ferrandina che subito dopo la prima guerra mondiale aveva visto rifiorire la sua economia, soprattutto nell’agricoltura e nel commercio. E fu proprio nei paraggi del mulino che ebbe inizio la sua storia d’amore col giovane barbiere. In Via Mario Pagano, una delle strade più lunghe e soleggiate di Pizzo Falcone, abitava anche la zia di Tonino, Pasquantonia Giangrande, una vecchietta simpatica, arzilla e molto estroversa. Suo marito, Cumba’ Carminucc’ Di Gilio era un calzolaio e aveva la bottega proprio in un sottano di fronte a casa sua, in Via Mario Pagano.

Pasquantonia oltre ad occuparsi della casa, spesso e volentieri lavorava anche ad un piccolo telaio che utilizzava per confezionare tovaglie, asciugamani, lenzuola. Tutta questa biancheria, così ben ricamata, la vendeva nel paese a quelle mamme che dovevano completare, a prezzi sostenibili, i corredi delle loro figlie. Con il suo lavoro  e quello del marito, la coppia conduceva una vita dignitosa, con quella  semplicità e frugalità che regnavano nelle case dei contadini, dei braccianti e degli artigiani a Pizzo Falcone.  L’unico cruccio che aveva Pasquantonia era quello di non aver avuto figli. In compenso, però, si era molto affezionata a quel giovane nipote che andava spesso a fargli visita, un nipote sempre pieno di premure e attenzioni. Per questo gli voleva un gran bene e per sdebitarsi con lui non vedeva l’ora di trovargli una bella fidanzata. Solo così, con una brava moglie, poteva propiziare a suo nipote un fortunato avvenire e una famiglia solida e felice.

Per la verità, già da un po’ di tempo Pasquantonia, aveva avviato la sua impeccabile attività investigativa. Mettendo gli occhi proprio su Esterina, la sorella di Cumba’ Ignazio, il mugnaio di Pizzo Falcone. Quella ragazza, dal volto sereno e dal portamento austero, le piaceva molto. E se piaceva a lei, a maggior ragione doveva piacere a suo nipote. Non c’erano altre variabili al suo ineccepibile sillogismo contadino!

A Pizzo Falcone conoscevano bene l’arte e la maestria di Pasquantonia nel combinare matrimoni.  Ma, più di ogni altra, cosa era conosciuta per la sua abilità nello scovare informazioni, confidenze e pettegolezzi sui giovani da sistemare. Mai come in questi casi, il fine giustificava i mezzi. Quindi, al bene superiore bisognava sacrificare tutto: tempo, discrezione, attesa e soprattutto tanta, tanta pazienza. Il fidanzamento doveva andare a buon fine. E, per questo nobilissimo scopo, non sempre filava tutto liscio.

Il pericolo era sempre dietro l’angolo e come diceva quel vecchio proverbio contadino: “Basta un acino di sale per…… rovinare la minestra”. Nell’impresa, bisognava accontentare un po’ tutti:  i futuri sposi, ma anche il padre, la madre, i fratelli, le sorelle. In poche  parole, tutta la santissima famiglia di lui e di lei.  In molti casi, proprio per evitare spiacevoli malintesi, servivano patti chiari, da mettere per iscritto. Non doveva sfuggire nulla: dal corredo alla dote, dalle case ai fondi agrari, e per i più benestanti, anche vigne  e cantine.  Sì, l’amore era bello!  Ma quanto poteva durare?  Bisognava pensare ai figli, ai genitori anziani da mantenere, alla cantina da curare e alla vigna da zappare.

In tutto questo, non era sempre facile raggiungere il traguardo. Alcune ragazze, particolarmente belle e attraenti, si impuntavano, facevano i capricci se il pretendente non era di loro gradimento. Bastavano due parole e si mandava tutto all’aria: “Non u vogg” (Non lo voglio!) E veniva giù tutto, come un fragile castello di carta. In diverse famiglie scoppiavano litigi, scenate, isterismi, finché i genitori, ma soprattutto la madre e le zie, non si arrendevano di fronte all’intransigenza delle loro figlie. Per arrivare alla meta, ci volevano abilità particolari: fiuto, pazienza, tempismo e tanta, tanta intelligenza. E Zia Pasquantonia, astuta e intelligente qual’era, queste abilità, le possedeva tutte. Alcune innate, a dire il vero; altre, invece, conquistate sul campo, frutto di una lunga e onorata carriera.

Le mamme con figlie da maritare sapevano molto bene di che pasta era fatta la vecchietta. Sebbene la sua casa fosse un piccolo sottano, aveva nell’immaginario collettivo, un immenso spazio virtuale. Più che una strega, immersa nelle sue fatture, nelle magie o in quei pericolosi intrugli d’amore, Zia Pasquantonia somigliava molto più ad un Commissario di Polizia. Anziché scovare l’assassino doveva combinare, sempre a buon fine, fidanzamenti e matrimoni. Ecco cos’era la sua casa: una specie di agenzia matrimoniale con annessa sezione investigativa.  In quella lunga, delicata e complessa trattativa che spesso era il fidanzamento, Zia Pasquantonia centrava il suo bersaglio novantanove volte su cento.

Sarebbe stato però ingeneroso e offensivo definirla ‘masciara’, strega o ruffiana.  Lei,  più che alla  magia, alla fatalità o al destino affidava tutte le sue “missioni” al Sacro Cuore di Gesù.  Nelle preghiere che recitava prima di affrontare l’impresa, sentiva dentro di sé come una divina investitura, e si rivolgeva al Santo dei miracoli, a Sant’Antonio da Padova ma soprattutto ai santi patroni di Ferrandina, a San Rocco e alla Madonna della Croce. Le sue preghiere, le sue intenzioni e tutte le sue energie puntavano ad un unico obiettivo: il matrimonio. Non era forse vero quello che c’era scritto nel Diritto Canonico? E cioè che i fini del matrimonio erano: la procreazione ed educazione della prole, il sostegno e aiuto reciproco tra i coniugi, e il rimedio alla concupiscenza?

Prima di mettersi all’opera, però, Zia Pasquantonia voleva verificare di persona se il giovane fosse in buona salute e soprattutto se avesse fama di  bravo lavoratore.  La ragazza, invece, doveva essere una brava casalinga e soprattutto di ineccepibili costumi. Se volevi formarti una famiglia, c’era una sola via: il matrimonio. E la famiglia, in quella cultura, era l’architrave di tutto: del vicinato, del quartiere, del  paese , dello Stato. La macchina sociale non poteva funzionare senza il suo motore. Ecco allora che compiuti  i diciotto/vent’anni, i giovanotti, soprattutto  i braccianti e i contadini, chiedevano alla madre o alle zie: “Acchiatm la zit”. “Trovatemi la fidanzata” . Non chiedevano soldi, macchine o vacanze. Pretese allora inconcepibili e impossibili. Chiedevano semplicemente di trovargli una compagna per la vita. E nell’anno di grazia del 1942, a Pizzo Falcone, era arrivato il turno di Tonino. Un giovanotto cui non mancava niente: di bell’aspetto, con un mestiere sicuro, un bel carattere e in più  una vigna o un fondo che suo padre gli avrebbe  sicuramente lasciato in eredità.

E, così, vieni oggi e vieni domani, arrivò il giorno che Zia Pasquantonia aveva tanto sperato. Organizzò a casa sua un incontro riservato, con la scusa che Tonino aveva bisogno  di un vestito nuovo per il matrimonio di un suo cugino. E chi meglio di Esterina poteva confezionargli quel capo su misura? Lei era una bravissima sarta. Già da piccola, a Boston, aveva imparato il mestiere, ma fu proprio a Ferrandina che perfezionò la sua abilità nel confezionare camice, giacche e pantaloni che seppur lontanamente, richiamavano il gusto e lo stile americano.

A dire il vero, per i tempi di allora, l’intuizione di Zia Pasquantonia si rivelò molto felice. Per avviare quel lavoro di sartoria e confezionare un abito adatto alla circostanza, furono necessari diversi giorni: uno per le misure, un altro per calibrare al meglio lunghezza di giacca e pantaloni e un altro ancora, come prova finale, per verificare che il vestito gli andasse a pennello.

Sulle prime, la vecchia zia non ebbe la sensazione che tra i due fosse scoccata la scintilla dell’amore. Forse, solo curiosità o un po’ di simpatia. Ma alla fine, i suoi timori, grazie a Dio, si dimostrarono infondati. Superata una prima fase di timidezza, Tonino capì subito l’antifona. Non solo l’assecondò ma fece capire in tutti i modi che la ragazza gli piaceva. E chiese alla zia di invitarla più spesso, mentre Esterina, dal canto suo, assecondava sempre più quella inclinazione amorosa.

Per incontrare Tonino, portava le scarpe a riparare da Cumba’ Carminucc’, per poi trattenersi, di fronte, a casa sua. “Non t’nie cè scus’ acchià, sci l’ scarp’ ad aggiustà” (Non aveva che scusa trovare e andava le scarpe ad aggiustare) era un proverbio  riferito a quelle ragazze che volevano incontrare di nascosto il loro fidanzato. Per farla breve, i due incominciarono ad amoreggiare. Si raccontarono le loro vite. E, sempre di nascosto dai loro genitori, incominciarono a darsi i primi baci, le prime carezze.

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