venerdì, 26 Aprile, 2024
Il Cittadino

Marvasi Pelle Mazzuka Barillaro Fonti etc.

Consentitemi di divertirmi questa mattina, ché sono depresso.

No, no! vi tranquillizzo: non depressione ma quell’avvilimento che deriva dalle piccole (e grandi) contrarietà della vita, che in certi periodi, chissà mai per quale congiura astrale, si concentrano.

Così mi avvilisce la mia incapacità di leggere e di capire una cartella esattoriale: e sarei un avvocato! Nel mondo non burocratico, chiunque abbia una pretesa creditoria scrive al suo debitore spiegandogli chiaramente da cosa deriva la sua richiesta: caro Tommaso, hai ordinato quel determinato bene te l’ho consegnato ancora non mi hai pagato; ti invito a saldare il debito. Il fisco no. Il fisco menziona numeri incomprensibile, di innumerevoli cifre, normalmente con riferimento ad anni remoti di cui non si ha quasi più memoria: e solamente comprendere la ragione della richiesta richiede l’intervento di esperti fiscalisti e la ricerca di antiche comunicazioni messe chissà dove. Inevitabilmente si va, scomodamente, ad uno degli sportelli dell’agenzia delle entrate, dove, se si è fortunati, si ottiene una qualche spiegazione comprensibile dagli umani normodotati.

Ti convinci che l’erario ha effettivamente un credito e chiedi di estinguerlo, ingenuamente convinto che facilmente potrai pagare e risolvere il problema mostrando la faccia al tuo telefonino e facendo così transitare i soldi dal tuo piccolo conto alla enorme voragine di quello erariale.

Assolutamente no. Pagare il fisco è difficilissimo, servono moduli, codici, riferimenti: non umani naturalmente del tipo «caro fisco ti pago le tasse che mi hai chiesto», ma criptati e criptici.

Avvilimento accresciuto da una multa per divieto di sosta nel mio raro uso della macchina in città.

Mi riconosco colpevole e decido di pagare subito la “tariffa ridotta”. Cerco un codice a barre o un codice QR per procedere subito al pagamento e non c’è. Si può pagare in posta o presso un tabaccaio. C’è n’è uno lì a fianco, entro e consegno il lungo modulo della sanzione amministrativa. La cassiera mi chiede: «il codice a barre lo cerca lei e ce lo manda per email o lo cerchiamo noi? Fanno cinquanta centesimi in più» (mille lire per quelli della mia generazione). Ergo mi arrabbio (ed avvilisco per la mia impotenza) perché la sanzione comminatami ha generato un codice a barre per il pagamento, ma lo stesso è rimasto gelosamente custodito e non stampato nel foglio lasciato sulla macchina del suddito: che è bene patisca qualcosa, gli venisse mai in mente di essere cittadino.

Cerco quindi riparo nei social e trovo effettivamente due battute che mi divertono e mi tirano su.

Le cito a mente perché non riesco a ritrovarle e mi scuso con gli autori che non posso menzionare.

La prima è la divertente considerazione che il Movimento Cinque Stelle abbia espulso il Senatore Vito Petrocelli, presidente della Commissione Esteri del Senato, che faceva il filo-cinese gratis ed abbia stabilito un compenso di trecentomila Euro a Grillo per fargli fare il filo-cinese a pagamento.

La trova esilarante nella rappresentazione filodrammatica della nostra politica.

La seconda è l’acutissima osservazione di un genio, in relazione alla decisione della Corte Costituzionale di dichiarare illegittima l’automatica attribuzione del cognome paterno al figlio nato nell’ambito di un matrimonio: «mi rendo conto che fino ad oggi è stato imposto per legge il cognome dell’unico genitore di cui si potesse dubitare».

Cosa che subito mi richiama le vecchie zie del mio meraviglioso meridione che, ad ogni nascita, si affrettavano ad urlare «è preciso al padre! Il suo ritratto!», a tranquillizzare e a dare conferma della paternità, trovando, quando proprio la somiglianza era inverosimile, particolari in comune col presunto genitore: «guardate l’orecchio, il naso, la smorfia di quando ha fame».

La vicenda giudiziaria che ha dato origine alla sentenza della Corte Costituzionale era ignota praticamente a tutti; credo anche alle femministe che oggi la rivendicano come una loro vittoria.

Non intendo urtare la loro sensibilità se ci scherzo sopra, attribuendomi per gioco anche il cognome delle mie ascendenti femminili: donne tutte eccezionali, quanto i mariti, se non di più.

Non sarebbe del resto una storia nuova nella mia famiglia. Già mio nonno Tommaso, emigrando da Cittanova a Locri ai primissimi del Novecento, attratto dalla dinamicità della neonata cittadina (la trasposizione lungo la ferrovia dell’antica e nobile Gerace), per svolgere lì la professione di avvocato presso lo zio Raffaele Pelle, aggiunse (anche se non anagraficamente) il cognome della madre – Pelle, per l’appunto – al proprio: così nell’Albo degli Avvocati di Locri del 1910.

Disegnerei così una geografia della Calabria. Mio padre, figlio di Marvasi Pelle, avrebbe certamente aggiunto Mazzuka, la coraggiosa e forte sua madre originaria di Petilia Policastro. Io figlio di Marvasi Pelle Mazzuka, mai avrei tralasciato il cognome di mia madre – lo già scritto qui e lo ripeto: la persona più intelligente incontrata nella mia vita – Barillaro, origini di Mammola e Serra San Bruno. La quale mai avrebbe rinunciato al cognome della sua di madre, Grazia Fonti: che, a parte il suo ruolo di capofamiglia durante la prima guerra mondiale, di certo recupererei, perché avendo una quindicina di fratelli, rinverdirebbe la mia parentela con mezza Piana di Gioia Tauro da Palmi a Laureana di Borrello.

Non vado più indietro, perché mi sento ormai rilassato: e mi firmo Tommaso Marvasi Pelle Mazzuka Barillaro Fonti etc.

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