“Il Recovery Fund o meglio, nella sua definizione estesa, il Next Generation UE è il piano europeo per una “ripresa sostenibile, uniforme, inclusiva ed equa” che viene finanziato dall’Europea con risorse proprie e che, pertanto, necessita di una progettazione e un’accountability accurata – spiega -. Ci offre l’occasione per dar vita per tre grandi criticità che colpiscono il sistema Italia ovvero: la recessione demografia, la scarsa produttività e l’eterna questione della sostenibilità del debito pubblico”.
Secondo il suo punto di vista, come si spiega il fenomeno della recessione demografica in Italia?
Analizzando la popolazione tra le diverse fasce anagrafiche è facile prendere atto che in Italia la fascia degli over 65 è molto numerosa, e lo sarà sempre di più negli anni futuri, caratterizzando cosi la nostra nazione come una realtà regressiva. Gli over 65 sono più numerosi degli under 15 e questo connesso ad un crescente assottigliamento della fascia 15-64 comporta conseguenze pesanti sotto il profilo sanitario e lavorativo.
Se il saldo demografico è negativo, il Paese non può neppure contare sul potenziale di crescita economica derivante dal dividendo demografico; che dipende inesorabilmente da numeri di soggetti lavorativamente attivi rispetto alla popolazione non produttivo (ovvero over 65 ed under 14). Quindi una società anziana perde, inesorabilmente, energia e vitalità.
Quali sarebbero gli interventi da fare di fronte a questo problema?
Con una buona rete di servizi per l’infanzia è indispensabile per aiutare le coppie a decidere di avere figli e per favorire l’occupazione femminile. L’Italia nel 2015 ha investito 1,1 mld di euro per asili nido ovvero lo 0,08% di spesa pubblica, decisamente poco rispetto al 1,06% della Svezia.
Vi è quindi una diminuzione della popolazione in età lavorativa?
Perché l’Italia possa mantenere costante la sua popolazione lavorativa nei prossimi 20 anni avrebbe bisogno di circa 325.000 nuovi lavoratori all’anno, e questo perché la fascia 15 – 64 nel 2040 passerà al 57% del totale della popolazione perdendo rispetto ad oggi 7 punti percentuali. Un tema urgente dunque quello delle politiche dell’immigrazione che deve essere affrontato in maniera scevra dai populismi e cercando di equilibrare al meglio la domanda e l’offerta.
Tutto questo incide sul welfare?
Invecchiamento della popolazione, calo demografico e un mancato ricambio della popolazione in età lavorativa hanno ricadute non solo sul sistema economico ma anche sul bilancio dello stato; infatti una popolazione massiva incide pesantemente sul welfare (sanità, pensioni, protezione sociale). La spesa sanitaria per un over 75 in Italia è otto volte superiore rispetto a un soggetto nella fascia 15 – 24 anni. Spendiamo molto più in pensioni che in formazione, ed infatti in Italia la spesa per la previdenza incide in maniera rilevate: pari al 16,3% del PIL, rispetto al 13,1% della media europea.
Parliamo ora di crescita…
“La ricchezza di uno Stato sta nella creatività e produttività della popolazione e nelle interazioni produttive tra le persone”. Questa affermazione di Joseph Stiglitz, premio Nobel per l’economia nel 2001, dovrebbe essere la pietra miliare per i policy maker poiché identifica la popolazione e la produttività come perno per il benessere di una nazione. Con un Pil pro capite che nel 2018 è stato pressoché identico a quello del 1995 registrando la “progressione” del Pil più deludente del panorama internazionale. Sulla stessa linea la valutazione del reddito disponibile reale delle famiglie pro capite che nel paragone tra il 1995 e il 2015 registra una flessione del 5,6% relegandoci al penultimo posto nella classifica europea ponendoci davanti solo alla Grecia. Una fotografia indubbiamente ingrata quella che ne esce che può solo peggiorare se si tiene conto della diminuzione di crescita avuta per effetto della pandemia.
Questi dati fanno pensare alla non crescita, giusto?
Questi dati inducono inevitabilmente una riflessione sui motivi della non crescita e sulle possibili strategie da porre in essere per tentare di recuperare il gap con altri paesi europei. Occorre rammentare che nel ranking mondiale della competitività l’Italia occupa oggi la 44° posizione su 63 paesi perdendo rispetto al 1999 ben 14 posizioni (eravamo al 30° posto allora); oggi fanno meglio dell’Italia: Cipro, Lituania ed Indonesia.
I cittadini ne sono a conoscenza?
Ad avere influenze negative sulla crescita è di certo l’inadeguatezza del livello di conoscenza raggiunto dai cittadini. Infatti la conoscenza è una competenza trasversale che facilita il benessere di una comunità. Secondo l’indagine Piacc – Ocse (2019), in Italia, il 28% della popolazione tra i 16 e i 65 anni è analfabeta funzionale. Il dato è tra i più alti in Europa, eguagliato dalla Spagna e superato solo da quello della Turchia (47%).
Cosa occorre prima di tutto?
Subito a cascata un impegno nell’ambito dei livelli di istruzione universitaria: ad oggi solo il 19% dei nostri 25-64enni ha un’istruzione universitaria, contro una media Ocse del 37%.
E, ovviamente, un necessario aumento della spesa pubblica per istruzione: l’Italia spende circa il 3,6% del Pil, uno dei livelli più bassi dei paesi europei, contro una media Ocse del 5%. I benefici di un efficace sistema formativo e degli investimenti in capitale umano si diffondono in maniera sistemica nella società. Avere cittadini con un titolo di studio elevato equivale a riservare loro maggiori opportunità di lavoro, migliori retribuzioni, condizioni di salute più salubri e un impegno sociale importante con evidenti ricadute sull’intera collettività. Ma un trend simile porta anche una crescita della qualità della classe dirigente di uno Stato; favorendo molte categorie: imprenditori, legislatori, dirigenti di aziende private e pubbliche.
Secondo lei c’è un altro fattore che incide sulle non crescita?
La dimensione e la struttura delle imprese italiane (piccole aziende a conduzione famigliare e poco patrimonializzate) è un altro fattore che incide sulla non crescita. Infatti le aziende di piccole dimensioni non sono strutturate tecnicamente e ciò con comprensibili conseguenze sul loro sviluppo sia in termini manageriali che di ricerca e sviluppo. Per comprendere l’incidenza della ricerca e dello sviluppo all’interno dell’economia globale di una nazione occorre valutare il valore aggiunto generato per ogni ora lavorata. Un indicatore decisamente scoraggiante per l’Italia con una crescita media per anno, nel periodo 1995 – 2018, di solo il 0,40% contro una media europea del 1,6%. Gli investimenti in R. & S., pubblici e privati sono rispettivamente pari al 0,52% e 0.86% del Pil, nel ns. Paese portandosi in una condizione di evidente inferiorità rispetto ad altre realtà.
Cosa ha portato la globalizzazione?
Il nostro sistema produttivo con l’avvento della globalizzazione ha subito una forte erosione in settori di produzione a basso valore aggiunto e di specializzazione (tessile, abbigliamento, articoli in pelle, ecc.). Altri Paesi in cui spicca (uno per tutti) la Cina al contempo non si può negare come non detto sistema non sia stato in grado di adeguarsi ai cambiamenti e al contesto competitivo globale. Ora nei nuovi orizzonti saremo competitivi solo se digitali; e sia il settore pubblico che privato dovrebbero porre molta attenzione a questa nuova sfida.
Come viene calcolato l’indicatore digitale?
Occorre aver chiaro come ed entro quando si intende migliorare la posizione in classifica e per far ciò bisogna comprendere come viene calcolato l’indicatore digitale. Esso si compone di tre grandezze. La conoscenza: intesa come il sapere necessario a scoprire, comprendere e costruire nuove tecnologie. La tecnologia: inteso come contesto complessivo che consente lo sviluppo di nuove tecnologie. La preparazione al futuro: intesa con livello di preparazione di un paese a esplorare trasformazioni digitali. Costituita da attitudini all’adattamento dinamico, agilità economica, integrazione dell’innovation tecnology. Indicatori che, tutti insieme, permettono crescita e benessere per la nazione.
Come potrà essere sostenibile il debito?
Il debito sarà sostenibile se utilizzato per fini produttivi. Siamo un Paese molto indebitato e con una parte consistente della spesa “vincolata” in ambiti come il Welfare (in continuo aumento anche in funzione del fattore demografico), gli interessi passivi, ed il costo del personale.
La sostenibilità del debito e la credibilità di chi lo emette sono solo le 2 facce di una stessa medaglia a cui dobbiamo porre particolare attenzione nei prossimi anni anche in funzione dei suoi detentori. La stima del debito pubblico italiano è che a fine 2021 sia pari al 154,9% del Pil, e di cui il 42,2% sia detenuto dalla Bce/Banca d’Italia e altre istituzioni Eu mentre il 112,7% sia detenuto da detentori privati. In termini assoluti lo stock del nostro debito detenuto da enti europei a fine 2021 sarà, dunque, pari a 743 miliardi di euro. È evidente che l’acquisto dei nostri titoli (siano essi Bot, Bpt, ecc.) da parte delle istituzioni europee deve essere accolto con particolare favore perché permette di dar luogo ad un indebitamento a tassi decisamente bassi e soprattutto senza incontrare particolari difficoltà di “collocamento” come è accaduto durante la crisi dei debiti sovrani del 2011/2012. In più bisogna aver presente che se il nuovo debito – “buono” – sarà indirizzato a fini produttivi potrà registrare un’accoglienza favorevole da parte dei mercati finanziari e dagli investitori pubblici. Gli impegni assunti dallo Stato Italiano verranno così considerati credibili e solvibili.
Ci sono divari territoriali in Italia?
Si, molto marcati che contribuiscono inevitabilmente alla non crescita. In termini di Pil pro capite la quota del Nord Ovest è di 36.2 mila euro, quella del Nord Est è di 35,1 mila euro, quella del Centro è di 31,6 e quella del Mezzogiorno è di 19,0. Queste differenze abissali tra Nord e Sud camminano in parallelo con altri indicatori come il benessere sociale o efficienza delle amministrazioni locali.