martedì, 30 Aprile, 2024
Attualità

Quando il giudice non risponde soltanto alla legge

Mentre il Popolo Sovrano è alle prese con problemi di sussistenza, come gli aumenti di costo del carrello della spesa o del tasso sui mutui bancari, la politica e la giustizia non hanno saputo far di meglio  – in questi giorni di vacche magre – che alzare al calor bianco la polemica fra i rispettivi vertici a proposito della possibilità – per i magistrati – di disapplicare una legge o un atto con forza di legge, come appunto è avvenuto a Catania dove un giudice ha emesso la sua discussa decisione su tre casi di immigrazione, disapplicando le disposizioni che Gli avrebbero imposto di convalidare il fermo dei soggetti irregolarmente sbarcati sulla costa siciliana.

Nessuno dei commentatori intervenuti a valutare l’accaduto ha  però avuto l’ardire di sottolineare come simile vicenda non possa considerarsi un fatto eccezionale, visto che da oltre trent’anni il potere giudiziario – facendo leva sulla propria assenza di responsabilità, quale presunto corollario dell’indipendenza assicuratagli dell’articolo 101 della Costituzione – è uso, per un verso, disapplicare i precetti normativi che non gli garbano e, per altro verso, è altrettanto uso adottare provvedimenti fondati su precetti del pari inesistenti.

Per quel che riguarda la disapplicazione, si pensi a quanto avviene – nel corso di indagini preliminari – ove la presunzione di innocenza viene costantemente tenuta in non cale nel momento della irrogazione di misure apparentemente cautelari, ma in realtà giustificabili solo presumendo la colpevolezza dell’indagato.

Con riferimento invece alla inesistenza di determinati precetti, si faccia riferimento alle forzature interpretative cui spesso il giudice ricorre per giustificare misure come il sequestro finalizzato alla confisca anche nei confronti di imputati già assolti in sede di processo penale.

Sembrano dunque tutt’altro che straordinari gli episodi in cui qualche giudice abbia riscosso ovazione o critica per aver scelto di disapplicare talune leggi nazionali o – ed è anche peggio!  – per essersi avventurato in interpretazioni della Costituzione che sembrano sfociare in una sorta di creazione di nuove fattispecie prive di quella base normativa che, sola, ne possa giustificare l’applicazione.

Simili modalità di procedere e di provvedere hanno ricevuto numerose censure da parte della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, ma purtroppo il tempo che trascorre fra la presentazione di un ricorso in base alla convenzione EDU e il momento della relativa decisione porta, quale prima conseguenza, un’attenuazione del rilievo delle questioni oggetto di attenzione da parte di quel giudice sovranazionale.

Il dilemma – etico e costituzionale nel contempo – che ne deriva viene così a radicarsi in un semplice interrogativo: fino a che punto un giudice può e deve mantenere la propria autonomia interpretativa nei confronti dei precetti che è chiamato ad applicare, anche ove le proprie convinzioni comportino, come diretta conseguenza, la disapplicazione di una legge nazionale?

Per i critici, la questione verte non solo sulla legittimità dell’azione, ma anche sulla potenziale erosione dei principi democratici, dove le leggi sono fatte e approvate da rappresentanti eletti dal popolo, mentre altrettanto non può dirsi per i magistrati chiamati ad applicare le leggi stesse.

Negli ultimi trent’anni, d’altronde, non sono stati molti i casi in cui la Corte Costituzionale o il Consiglio Superiore della Magistratura sono intervenuti – per quanto di rispettiva competenza – a reprimere il comportamento di un giudice che abbia deciso apertamente di disapplicare una legge in nome di una propria personale lettura della legge stessa, se non addirittura della Costituzione.

I fatti di questi giorni e la reazione che ne è scaturita almeno a livello mediatico (ma non solo) sembrano dimostrare come sia finalmente giunto il momento di sollevare interrogativi legittimi riguardo all’equilibrio tra i poteri e alla sua compatibilità con lo stesso principio di democraticità della Repubblica, inteso quale “Grundnorm” del sistema costituzionale nel suo complesso.

La tardività con cui si è giunti a tali riflessioni è ancor più singolare ove si pensi che Il principio di legalità e la dottrina della separazione dei poteri sono pietre miliari dell’architettura pubblicistica italiana.

La Carta costituzionale – in particolare – stabilisce chiaramente i ruoli e le funzioni di ciascun ramo del potere, assegnando al Parlamento il compito di legiferare, al Governo quello di amministrare e alla Magistratura quello di giudicare.

Sembra però difficile negare che il dialogo tra le istituzioni, almeno in nome di un costante bilanciamento di ciascun potere rispetto agli altri due, sia da considerare come essenziale per mantenere ogni democrazia viva e funzionante, a condizione che i contrasti non giungano mai alla rottura degli equilibri, pur variabili, fra l’uno e l’altro potere.

Tuttavia, l’equilibrio diviene precario quando uno di questi poteri intraprenda ad esercitare funzioni che la Costituzione attribuisce espressamente ad altro potere e la questione diviene ancor più delicata se si pone alla base di ogni iniziativa, dell’uno o dell’altro, la legittimazione democratica di cui siano rispettivamente portatori: i giudici, a differenza dei parlamentari, non sono direttamente eletti dal Popolo (cui appartiene – come appena ricordato – la sovranità) e pertanto  – non incarnando la volontà normativa di Quest’ultimo  (da intendersi pure come corpo elettorale) – dovranno perciò sempre piegarsi di fronte le regole di condotta che il legislatore punì loro di fronte.

Diviene allora indispensabile sottolineare come l’equilibrio tra i poteri dello Stato vada sempre e comunque considerato come il principio cardine di ogni democrazia, proprio perché si fonda sulla chiara divisione e interazione tra potere legislativo, esecutivo e giudiziario.

Concludiamo dunque, quasi banalmente, ricordando ancora una volta, ai polemisti di questi giorni, come la separazione dei poteri sia uno dei principi fondamentali su cui si basa ogni Stato di diritto che pretenda davvero di esser tale.

Nell’ambito del sistema italiano, questo “Stato di diritto” è rigorosamente disciplinato dalla Costituzione, con un chiaro distinguo tra potere legislativo, esecutivo e giudiziario: ciascuno con i propri ambiti di competenze e proprie prerogative e – quando i confini fra questi tre poteri diventano labili – viene anche a diventar tale la certezza del diritto.

Anzi allora la mano chi vuole continuare su questa strada!

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