martedì, 30 Aprile, 2024
Cronache marziane

Di nuovo sul pianeta giustizia

Approfittando del lungo sonno in cui Kurt è caduto – ben riposto fra le pagine di Flaiano – dopo una
sfiancante passeggiata nel centro di Roma, ormai pieno di ostacoli, deviazioni e trabocchetti per lavori in
corso che rendono la vita difficile a pedoni e automobilisti (fatti salvi, naturalmente, i pochi fortunati in
possesso di lampeggiante azzurro sull’autovettura “di servizio”, che accendono e spengono le sirene e per i
quali le regole sono scritte solo per essere violate: tanto nessuno andrà mai a controllare se ricorressero
effettivamente le condizioni per l’utilizzo di quegli strumenti eccezionali), provo a riprendere – stavolta solo
con me stesso – il discorso del rapporto fra magistratura e politica, in un’ottica assolutamente inconsueta:
quella del cittadino comune che ha presunti debiti col fisco senza ottenere ragione dai giudici tributari, che
è contestualmente colpito da avvisi di garanzia per comportamenti non a lui ascrivibili e che si rivolge,
inascoltato, al giudice civile per ottenere il rilascio di un immobile nel quale poter abitare o lavorare.

I cultori della “scienza triste” (l’economia) direbbero che questo è l’approccio “micro” ad una problematica
che dovrebbe invece essere esaminata secondo logiche “macro” e tirerebbero forse in ballo l’antico duello
fra Hayek e Keynes per sostenere come le preoccupazioni che affliggono il singolo non potranno mai esser
risolte se non proiettandole all’interno di un quadro dominato dalla Legge dei Grandi Numeri, ma poiché
fra i molti miei difetti non annovero quello di pensare – sempre e comunque – in termini astutamente
scientifici, metto da parte le dottrine e provo a spiegare il mio punto di vista in forme empiriche, ovvero
fondate solamente su constatazioni che derivano dall’esperienza del vivere in questo disordinato sistema di
regole amministrative e giudiziarie: regole tutte dominate (o, perlomeno, condizionate) dall’esistenza di
trentacinquemila fattispecie di reato e il cui numero è in costante aumento: solo la Legge Zan ne contempla
almeno un altro paio e non abbiamo ancora letto con attenzione gli schemi dei disegni di legge che
verranno sottoposti al Parlamento per compiere la “rivoluzione verde” sulla quale tutte le istituzioni si
dicono ormai impegnate – in qualunque parte del mondo – al fine di salvare il nostro pianeta dalla
catastrofe ambientale prossima ventura.

Esiste però un rimedio principe per sbloccare le disfunzioni del sistema giustizia nella sua interezza: quello
di ridurre il numero dei comportamenti qualificati come reati alle sole fattispecie che generano allarme
sociale, utilizzando – per reprimere altri tipi di comportamenti – regimi sanzionatori amministrativi che non
richiedano le risorse, le garanzie e gli adempimenti invece necessari per avviare, gestire e concludere ogni
procedimento penale.

Segnalo a tal proposito che – quanto alle garanzie – è nuovamente intervenuta a condannare il nostro Paese
la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, imponendo un risarcimento di 6500 euro a ciascuna delle persone
coinvolte in un processo penale relativo all’abuso del regime delle quote latte introdotto dal regolamento
comunitario numero 856/84.

La giustizia penale italiana aveva infatti trasformato sei innocui agricoltori in una banda di pericolosi
delinquenti, appioppargli – in appello – pene previste per essere irrogate solamente ai componenti di
associazioni a delinquere fra consumati mariuoli.
La Corte di Strasburgo ha infatti stabilito che la Repubblica Italiana si è resa ancora una volta responsabile
della violazione dell’articolo 6, paragrafo 1, della Convenzione EDU per aver condannato gli imputati senza
disporne l’esame personale e per la mancata audizione dei testimoni a discarico.
Il lettore immagini lo spreco di risorse che ha accompagnato quell’azione penale, sicuramente doverosa ma
altrettanto sicuramente poco apprezzabile dal punto di vista dell’opportunità di condurla in porto, visto che
si è risolta in un pesante dispiego di risorse umane e finanziarie al compimento delle quali hanno pagato
tutti – ivi compreso il bilancio pubblico nazionale – un prezzo più elevato di quanto quella vicenda
obiettivamente meritasse.

Non è forse giunto il tempo di cambiar strada, riducendo il numero delle fattispecie penalmente rilevanti – e
così il numero dei processi celebrati per accertarle – abolendo pure l’obbligatorietà dell’azione penale?
Non credo mio compito suggerire – a chi si oppone al disegno governativo sui tempi certi della giustizia – di
valutare i danni che l’incertezza infligge all’attrazione degli investimenti esteri verso il nostro Paese, ma
voglio augurarmi che gli elettori riflettano almeno su questo profilo nel momento in cui saranno chiamati a
votare per i Referendum abrogativi di cui si dibatte in questi giorni.
Dopotutto le questioni che tanto affannano i favorevoli e i contrari all’iniziativa referendaria possono
semplicemente ridursi ad una sola: quella di come far coincidere, finalmente, il Diritto con la giustizia!

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