venerdì, 26 Aprile, 2024
Società

Un dolore che non diventa mai ricordo

Al Quirinale Il Giorno della Memoria con le massime istituzioni

“Mai più a un mondo dominato dalla violenza, dalla sopraffazione, dal razzismo, dal culto della personalità, dalle aggressioni, dalla guerra. Mai più a uno Stato che calpesta libertà e diritti. Mai più a una società che discrimina, divide, isola e perseguita. Mai più a una cultura o a una ideologia che inneggia alla superiorità razziale, all’intolleranza, al fanatismo. Il sistema di Auschwitz e dei campi a esso collegati fu l’estrema, ma diretta e ineluttabile, conseguenza di pulsioni antistoriche e antiscientifiche, istinti brutali, pregiudizi, dottrine perniciose e gretti interessi, e persino conformismi di moda”. Così il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella.

“La Shoah rappresenta l’abisso dell’umanità. Un male che ha toccato in profondità anche la nostra Nazione con l’infamia delle leggi razziali del 1938. È nostro dovere fare in modo che la memoria di quei fatti e di ciò che è successo non si riduca ad un mero esercizio di stile perché, come ha recentemente ricordato Ferruccio De Bortoli dalle colonne del Corriere della Sera, “la memoria è come un giardino. Va curata. Altrimenti si ricoprirà di erbacce. E i fiori dei giusti scompariranno. Divorati”». Così il Presidente del Consiglio Giorgia Meloni.

Anni fa ho avuto l’onore di intervistare Piero Terraccina, uno dei pochi superstiti italiani della Shoah, che oggi non c’è più. Un uomo, dallo sguardo ancora dolente e gli occhi pronti a riempirsi di lacrime al solo ricordo, che ha speso tutta la vita a raccontare la sua storia, soprattutto nelle scuole, nella speranza che, sentendo quell’orrore dalla viva voce di chi lo avevo vissuto, i ragazzi crescessero nella consapevolezza di quale abisso è capace l’animo umano e vigilassero perché ciò non ricapitasse più. “Uno spettro tra gli spettri”, così Terracina si descriveva all’interno del campo di Birkenau in Polonia, noto come Auschwitz II, in cui fu deportato insieme all’intera famiglia – i genitori, la sorella Anna, i fratelli Cesare e Leo, lo zio Amedeo, il nonno Leone David – il 17 maggio del ’44. Quando il 27 gennaio del1945 le truppe sovietiche entrarono nel campo, ponendo fine allo strazio di quei corpi malnutriti, allo stremo delle forze, nudi e infreddoliti, quello che regnava era solo silenzio, un silenzio pesante come il piombo, perché “nessuno era più in grado nemmeno di gioire”, raccontava Terracina.

Per noi il 27 gennaio è il Giorno della Memoria, un giorno dell’anno in cui tutti siamo costretti a ripercorrere la storia e a provare solo a immaginare cosa potessero aver provato quei 6 milioni di ebrei, rom, invalidi e omosessuali. Ma per chi in quei campi di sterminio c’è stato, il dolore non si è mai trasformato in ricordo. Hanno continuato a rivivere quelle terribili scene, giorno dopo giorno, fino alla morte. “Si dice sempre che la vita continua – mi disse Terracina -, ma non è vero. La vita finisce e ne comincia un’altra, completamente nuova, ma sempre con quel terribile peso. Ricordo ancora il distacco da mia madre, che con il viso inondato dalle lacrime, mi diede la benedizione e mi disse: ’Piero non ci vedremo più’. Come si può dimenticare?”. Solo a Birkenau c’erano quattro camere a gas e quattro forni crematori, una vera fabbrica della morte e della tortura.

Secondo lo scrittore ebreo Alessandro Piperno, che all’epoca dei fatti non era ancora nato, ma che ebbe i nonni che rischiarano la deportazione, la generazione seguente, quella dei suoi genitori, sembrò subire meno il trauma, perché forse, nella vicinanza, tentarono di rimuoverlo. Ma, come se si potesse trasferire geneticamente, eccolo lì ricomparire nell’inconscio della terza generazione più vivo che mai. “Con mio fratello – dichiarò lo scrittore in una intervista di qualche tempo fa – condivido il sogno ricorrente di essere inseguito dai nazisti. Non amo il Giorno della Memoria per eccesso di rispetto, non certo per difetto, e perché nella parola c’è una accezione lirica incongrua alla storia”.  Risentimento, dunque, e voglia di dimenticare per smettere di soffrire, i sentimenti ancora forti anche negli eredi della Shoah, ma anche desiderio che gli altri non dimentichino e che quell’unico giorno dell’anno, dedicato alle funebri commemorazioni, non diventi “il giorno della pacificazione – spiegò Piperno – perché, come disse Primo Levi, non sta a noi perdonare”. Una preghiera, la sua, a comprendere quanto ancora forte sia il dolore per quella atroce follia da non permettere la misericordia da parte di chi l’ha subita e che nessuno in futuro dovrà mai conoscere.

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