Con l’avvicendarsi di una fine forse già scritta dal principio nella grottesca epopea della ragazza russa Olesya, una sensazione di inerme arrendevolezza ci ha colto sopiti di fronte ad un sempre più illogico rigurgito di informazioni; amareggiati come siamo dalla commistione tra la comprensione per la povera madre di Denise Pipitone e il disgusto per aver assistito a questo spettacolo di assurda speculazione. Ma stavolta il tutto non ci ha trovati impreparati: non s’avverte stupore tra la gente ma un’aura diffusa di aspra consapevolezza; come se ormai ci fossimo tutti abituati ad ogni sorta di aberrazione, persino a questa.
Come se in qualche modo riuscissimo a giustificare il gesto di Olesya: partecipante, ancor prima di rendersi nota anche qui in Italia, ad un sexy reality show russo e che nientedimeno avrebbe poi finto di essere stata adottata pur di raggiungere la fama. Non abbiamo prova certa che questo sia del tutto vero o meno. E forse l’unico tratto positivo di quanto accaduto, può riscontrarsi nell’attenzione richiamata sul caso della piccola Denise, scomparsa dal 2004 a Mazara del Vallo. Ma il triste e recente episodio, espressione della brama dell’apparire ad ogni costo, si staglia probabilmente come la conferma più emblematica e rappresentativa dell’era moderna. “Chi è Olesya?” la ragazza russa che cercava la mamma in tv, ci siamo chiesti, tutti spossati nel vortice di questa marea convulsa nell’etere. E forse è stato proprio l’autore televisivo del reality cui partecipò la stessa a risponderci: “È una che ha spaccato i mobili e distrutto parte dello studio minacciandoci di rovinare lo show se non l’avessimo resa una star di fama mondiale”.
Alla fama in effetti ci è arrivata. Ma come? Ecco, il comandamento bacato odierno che sembra quasi giustificare tutto in nome del successo: “il come non importa”. Ciò che importa è raggiungere l’obiettivo, qualsiasi sia il mezzo. Allora, a proposito di Olesya, ho provato a distaccarmi dall’inevitabile dolore, dalla pena che suscitano tali miserie – inclusa quella per una giovane con evidenti disagi disposta a tutto per “diventare una diva” – e ho tentato di analizzare cinicamente il fatto in quanto tale; scevro da sentimentalismi e pietismi, che spesso offuscano la ragione. Olesya non possiede né promuove alcun talento, e ne è consapevole ma desidera ardentemente l’attenzione sui social e festeggia il traguardo di follower raggiunti su Instagram; Olesya non è bella, ma vuole apparire in tv: si tinge i capelli platino, si sveste e ammicca in un reality “hot”; Olesya infine, e ancor più terribile, non sarebbe neanche un’orfana rapita dai nomadi: sebbene in televisione rivolga un accorato appello chiamando “mammina” una sconosciuta.
Se non importa come ci si arriva, ad essere famosa o meglio famigerata, sono queste dunque le persone che poi ci arrivano? Chi minaccia, ricatta, distrugge pur di ottenere il “successo”? È stato un lampo: un po’ come vedere Mimì metallurgico ferito nell’onore (il meraviglioso film di Lina Wertmuller), quando il protagonista nelle più differenti situazioni nel corso della vita scorge però un tratto comune tra i suoi antagonisti: tutti sulla guancia hanno tre nei – il cardinale, il sindacalista di partito, il mafioso, il questore; tutti apparentemente diversissimi tra loro ma simili nella sostanza. In quel caso nel film del 72 erano maschere del potere, del sistema. In questo frangente si tratteggiano invece quelle dell’arrivismo sfrenato ed insensato: vuoto di contenuto.
È così allora che devono essere gli arrivisti: uno, nessuno, centomila Olesya? Maschere differenti che nascondono e tradiscono un medesimo volto? Individui spregiudicati che si fanno strada col pietismo sfruttato in ogni sua forma? Anch’io allora, come nella dissolvenza di un film, ho rivisto Olesya tra le tante maschere. L’ho vista nella madre ambiziosa, moglie di un marito inerte e frustrato, che brama per il figlio imbelle un importante futuro ed è disposta a tutto pur di riuscirvi. Ho scoperto Olesya nel professore che rivede sé stesso nell’allievo mediocre, e lo supporta per sotterrare il genio di quello per cui prova invidia: ripensando alle intere giornate da ragazzo passate sui libri da cui non riusciva a trarre ed elaborare un’opinione nuova o un’idea vera che fosse una, ma soltanto a ricopiare da abile bricoleur con mille fronzoli quelle di chi li aveva scritti.
Ho rivisto Olesya nel nipote che si serve della morte di un parente vittima di un attentato quale captatio benevolentiae e mezzo di relazione e vantaggi. Ho rivisto Olesya nella ragazzina viziata ed esaltata che abusa della chirurgia estetica cercando di mettersi in mostra tramite l’impresa di famiglia. Ho rivisto Olesya nell’avvocato figlio dell’avvocato che ostenta vittorie fasulle dietro compenso con la mitomania di Madonna e l’aspetto di Porky Pig. Ho rivisto Olesya nella studentessa occhialuta e risentita che strepita, ricatta e pretende che le venga costruita da più sapienti mani una carriera e scritto un saggio, piangendo povertà – perché il padre che non lavorava già prima della pandemia ora può attribuirne la causa al covid – mercificando il magro spirito e il denso involucro, per vendicarsi degli e delle incolpevoli che hanno doti e mezzi e che pertanto mettono in risalto il suo niente: quel niente che vuole tutto. Se ne siamo circondati allora, capisco e mi spiego perché s’avverta quella sensazione di ovvietà, quella mancanza di stupore cui mi riferivo qualche riga fa. “Olesya” la vediamo tutti i giorni, e questo è solo il più recente tra gli innumerevoli episodi della quotidiana scalata al successo – se tale può considerarsi – delle tante maschere di un solo volto per mezzo dell’intoccabile arma del pietismo.