Mia figlia Susanna è la mia grande Musa letteraria.
Da anni vive negli USA, ma è sempre presente emotivamente nella mia vita, assai frequenti i suoi suggerimenti e le sue provocazioni culturali, sempre di profondo interesse.
Susanna mi ha appena scritto, forse con riferimento ad una mia delicata vicenda sentimentale, a lungo tacciamo e poi riprendiamo dialoghi solo apparentemente interrotti: “A blessing in disguise. Dimmi se hai capito e prova a tradurre in italiano!”.
Rifletto e replico: “Non è letteralmente traducibile, ci provo in chiave logica”.
L’inglese, in certe espressioni, mi ricorda i broccardi latini che tempestavano le mie letture dei manuali di diritto all’Università, frasi essenziali, ma così sintetiche e pregnanti di significato, spesso non traducibili letteralmente in modo diretto.
Qualcosa di simile succede con i nostri dialetti italici. Più profonde sono le radici popolari, meno manifeste le complessità delle sovrastrutture linguistiche eccellenti, quella delle Corti, aristocratiche o intellettuali, più troviamo cultura autentica.
La cultura delle radici, quella capace di esprimere con una parola o con un breve giro di parole, magari accompagnate da gesti per iniziati, un mondo di significati.
Torniamo a A blessing in disguise, tradurrei così: talvolta sconfitte e fallimenti della vita emanano dietro una maschera energia benedicente e trasformativa.
Si! Ci ho chiosato sopra ma credo di aver penetrato il significato. D’altronde l’italiano è nato a Corte, non per le strade o per le campagne, e i nobili e gli intellettuali sono sempre stati intellettualmente complicati.
Ma ancora: quante volte nel teatro della vita attraversiamo momenti dolorosi, e questi momenti si trasformano miracolosamente in maschere trasformative? Dietro le quali prima ci nascondiamo, poi elaboriamo, e imprevedibilmente risorgiamo, passando ad una nuova visione della vita e delle cose.
Bella espressione A blessing in disguise e di quanta sostanza del teatro della vita è portatrice.
Ancora una considerazione sui dialetti, e sul mio dialetto siciliano, che ovviamente non ha l’esclusiva di ciò che sto per narrare.
Mi sovviene una di quelle memorie spesso struttura di ciò che scrivo.
Susanna ed io attraversammo un momento complesso della sua vita giovanile. Grazie a lei, in modo creativo. Un suo gioco di astuzia e di virtuoso uso del linguaggio fu per noi decisivo. La fanciulla seppe far leva su un’espressione apparentemente innocua che mi aveva sentito ripetere negli anni, magari scherzosamente o con ironia: Parola di Siciliano!
L’avevo educata, secondo quella tradizione orale che si trasmette da padre in figlio a quella idea degli avi: la non negoziabilità della parola data.
Il rispetto della parola data è per un siciliano (ripeto: non intendo rivendicare l’esclusiva) questione di dignità, di ethos personale, il famoso onore, la parola d’onore e quindi l’uomo d’onore, tema quest’ultimo sul quale ho scritto un pezzo a cui tengo molto, nel quale ho largamente argomentato che l’uomo d’onore è il galantuomo non certo il delinquente, come per diffusa pubblicistica.
Lei aveva poco meno di 18 anni, fimmina ribelle era, tutt’altro che di buon comando.
Fra noi si discuteva di un presente un po’ agitato (viveva con me ed io ero separato da poco tempo dalla sua mamma). Le proposi di venirmi incontro, di finire il liceo lasciandomi sereno alle mie attività, in cambio promettevo libertà di decidere della sua vita futura, finite le scuole.
La fimmina ribelle non perse un secondo, mi fissò intensa; con prossemica teatrale, mi porse la mano a braccio teso, marcando una distanza che sarebbe divenuta patto e fusione d’intenti e di spiriti. Pronunciò quella frase alla quale un buon siciliano, ipnotizzato da tanto talento interpretativo e senso delle tradizioni, non può sottrarsi.
“Parola di Siciliano!”, una stretta di mano, uno sguardo intenso e profondo, l’avvicinamento dei nostri volti e dei nostri sguardi, capovolse il rapporto di potere generazionale.
Diventò una studentessa modello e poco più di un anno dopo si diplomò con ottimi voti. Passò quindi all’incasso della parola genitoriale. La discussione fu asciutta e di pochi minuti:
“Papà voglio viaggiare e come prima tappa voglio vivere a Londra”.
Risposta: “Va bene ma non fai la viaggiatrice ottocentesca, vai a lavorare!”.
Sguardi forti fra siciliani. Susanna prese in mano così la sua vita. Ricevette un contributo in denaro per la sopravvivenza. Non chiese mai in futuro interventi di aiuto familiare. Libera e forte, autonoma in tutto.
Dietro la Parola di Siciliano! c’è un mondo che soltanto la profondità di una storia e di una cultura popolare può spiegare. Si tratta forse anche in questo caso di parole mascherate, non traducibili, se non nella totale immersione nell’opera teatrale della vita e nel suo contesto storico, culturale e civile.
Cambio di scena. Fui io a chiedere soccorso a Susanna.
Mi trovavo recentemente ad una festa, disk music anni ’60 – ’70, gente più che matura, qualche giovane divertito dall’ambiente inabituale.
Disk music! Ancora oggi mantengo l’imprinting della mia generazione, quella che cambiò il linguaggio della musica e del ballo, pioniera delle discoteche nelle quali nascevano nuove libertà, al di là della musica e dei movimenti senza regole apparenti dei corpi.
Durante la divertente serata, si diffondono all’improvviso le note dell’amatissima Sex machine di James Brown.
La strofa Shake your money maker, la ricostruisco il giorno dopo con la lettura del testo. Urge l’intervento chiarificatore di Susanna. Lunga telefonata San Francisco-Torino, riaffiorano ricordi, risa, incredulità.
Avevo ascoltato, ancora una volta, la sera prima, recitare l’espressione cantata. Sentito e risentito il pezzo, inequivocabilmente, affiorava una prosaica affermazione, a me nota fin da giovanissimo. Pronuncia in perfetto siciliano della Kalsa (vecchio quartiere arabo del centro storico di Palermo). La frase è irripetibile, volgare e a sfondo sessista. E sfido ogni buon siciliano ad ascoltare la canzone e darmi certa conferma.
Durante la telefonata si aprono due interessanti cantieri di ricerca linguistica.
Prima ricerca: perché Shake your money maker è diventata, pur fra comprensibili e preventivabili deformazioni fonetiche afro-americane, S******* malerettu? Nessun nesso linguistico e fonetico è riscontrabile fra le due espressioni. Ogni siciliano ascolti il pezzo e accerti l’evidenza del testo cantato che maledice qualcosa a sfondo erotico-sessista. Ma adesso vedremo il significato originale in inglese.
Seconda ricerca: come traduciamo Shake your money maker? Qui ci spostiamo sulla cultura afro-americana, la banale traduzione dall’inglese porterebbe infatti al Muovi quella parte del corpo che sa fare soldi, per semplificare l’interpretazione diciamo subito che l’oggetto consiste nella parte posteriore e bassa del corpo umano. Questa lettura potrebbe indurre ad un sottointeso neanche troppo celato, ad una mercificazione della zona corporea, ma fortunatamente- anche per il quotidiano fondato da De Gasperi che mi ospita – non è niente di tutto questo.
La mia interlocutrice statunitense suggerisce infatti trattarsi di un’esclamazione delle popolazioni afro-americane che usano riconoscere e dichiarare nobiltà a quella parte del corpo.
Il riferimento – mi spiega – nasce dal fatto che le donne di colore, essendo frequentemente dotate di robustezza, siano apostrofate così: muovi la tua grazia di Dio, quella che ti dà l’energia per avere successo nella vita. Ecco dunque il riferimento popolare al money maker. Una celebrazione della preziosa vitalità rappresentata dal posteriore delle belle robuste, energiche nere d’America.
Queste brevi note ci introducono in modo direi sufficiente al grande mondo della ricerca di un corretto approccio alla funzione del linguaggio, in tutte le sue dimensioni, dalle lingue, ai dialetti, dai costumi alle culture, fino alle scienze.
Resta adesso irrisolto il prosaico Sticchiu malerettu ma non posso proporre una risposta seriamente ragionata. Sarebbe utile un approfondimento, in ordine al quale sono sprovvisto al momento di mezzi e relazioni utili.