I nostri incubi sono cartine geografiche precise della nostra personale storia, dell’orrore subito e rimosso, di quelle ossessioni che sarebbero orrore a danno di altri se le agissimo. Eppure l’incubo è qualcosa di più, è altra forma di vita in un altro spazio; qualcosa di serio e portante, a cui guardare accettando il pericolo di perdersi, perché lì dentro è ben custodita un’altra lunga parte di esistenza che ha fame e sete e meno la guardi, più si agita per farsi ascoltare. È così che alle volte, l’orrore sfonda soglie imposte e si riversa nelle nostre vite. “Esiste un legame tra l’orrore e la bellezza? È vero che non sono riconducibili l’uno all’altra? Oppure la bellezza è figlia dell’orrore? Il bello è la parata immaginata dall’uomo per contenere l’orrore.” Queste parole indelebili, pronunciate dalla scena, sono il perno di “Nottuari”.
Questo trovo sia uno dei più grandi meriti di quest’opera funzionale tra teatro, installazione e performance: creare un’immediatezza di riconoscimento e di dialogo con ogni spettatore, col fardello di incubi propri che ognuno tiene nascosto sotto il letto, la capacità di svelare, quando cadono gli argini dell’approdo al mondo real-razionale, che l’incubo ha una sua grammatica ancestrale, che il disordine rosso e nero, urlante, ha un suo ordine che permea tutto l’orrore possibile all’umano. Più volte, durante lo spettacolo, mi sono sorpresa a pensare: ”questo è accaduto anche a me”. Il regista ci sta dicendo, attraverso la scena: signori il regno della notte ci governa tanto quanto quello della luce e noi siamo corpi di carne continuamente morsi e accarezzati da quest’opposizione di forze. Anche la nudità in scena assume una dimensione inedita, epurata da qualsiasi suggestione seduttiva o morale, non è che corpo offerto, che passa asservito e consegnato alla dimensione dell’incubo ed appare, la figura più capace di restituire il significato della morte, di là da qualsiasi simbolizzazione: carne che passa.
Per questo motivo lo spettacolo in Ligotti è sempre rimandato, squallido, inconcludente, il palco è vuoto e desolato e proprio per questo credo sia stimolante provare a restituire in teatro il senso di impermanenza che sprigionano le sue pagine e l’opacità delle sue immagini che (per usare una terminologia cara a Duchamp) si imprimono più nella mente che nella retina. I racconti weird di Ligotti mettono in crisi l’idea stessa di intrattenimento, di divertissment. La società dello spettacolo descritta da Guy Debord è una società addormentata».