Nel suo peregrinare per le librerie di Roma, Kurt il marziano è stato colpito dal titolo di un libro che campeggiava in una vetrina, fra le ultime novità della letteratura della saggistica; questo il titolo: “Non diamoci del Tu”.
Vi si raccontano le nefaste conseguenze della singolarità, tutta italiana, per cui – nel processo penale – il giudice e l’accusatore sono colleghi (il che equivale a voler dire che – nonostante la pubblicistica dominante lo neghi – fanno il medesimo mestiere), nonostante i primi debbano inevitabilmente presentarsi esibendo i connotati della terzietà, mentre i secondi non potrebbero – direi per definizione – vestire quegli stessi panni; altrimenti non saprebbero efficacemente controbattere alle prospettazioni e alle prove esibite dagli avvocati difensori degli accusati; soprattutto quando le accuse riguardino nefandezze improbabili come quelle sempre più spesso riferite ai cosiddetti reati dei colletti bianchi..
Tornando dunque a casa, Kurt mi fatto maggio di quell’interessante volumetto, scritto da un addetto ai lavori – l’Avv. Giuseppe Benedetto, il penalista che oggi presiede la Fondazione liberale intitolata a Luigi Einaudi – per propugnare la necessità e l’urgenza di una separazione delle carriere fra il pubblico ministero che deve dirigere “ le indagini necessarie per le determinazioni inerenti all’esercizio dell’azione penale” (art. 326 c.p.p.) e il giudice che deve poi deliberare sulle richieste di quello stesso pubblico ministero, senza che alcuno possa obiettare sui rapporti confidenziali fra il primo e il secondo, spesso occupando stanze fra loro contigue e stringendo inevitabilmente amicizie che imporrebbero almeno l’astensione tutte le volte che l’uno e l’altro si trovino ad occuparsi – pur nel differente ruolo – delle medesime vicende.
Quando poi – nel corso di quelle vicende – l’inquirente chiede al giudice l’adozione di misure cautelari, ecco che puntualmente si realizza – ma solo in teoria – una delle “gravi ragioni di convenienza “ previste dall’articolo 36, lettera h), dello stesso Codice del rito: ragioni che imporrebbero al giudice di astenersi dal pronunciare alcunché e qui il libro di Benedetto ci ricorda quanto possa essere “odioso quel rapporto intimo tra l’accusatore e il Giudice” (pag.9) che esita in episodi come quelli più avanti descritti: più avanti in quel libro – sia ben chiaro ! – e non toglierò al lettore il piacere di scoprirli da sé, soffermandovisi nel corso delle poche ore che la sua lettura richiede.
La parte più interessante del volume riguarda però la prospettiva comparata da cui Benedetto muove e che ben dimostra come il dibattito italiano sia ormai divenuto “ prigioniero dei principi cardine della giustizia penale “, intesi come unici e difformi dal resto di tutto il mondo occidentale.
L’autore, in particolare, analizza gli Stati in cui il modello della separazione delle carriere era nato: la Gran Bretagna prima e gli Stati Uniti poi, dove la terzietà del giudice viene da sempre considerata elemento imprescindibile per la protezione delle libertà individuali (non solo le libertà personali, ma anche quelle patrimoniali e professionali).
Spiace dover concludere che – almeno uno nei confronti delle autorità giudiziarie – i principi dettati dalla prima parte della nostra Carta costituzionale siano particolarmente deboli, direi addirittura inattuati, visto che le svolte impresse in senso garantista dalla Corte Costituzionale usano prevalentemente, come parametro di riferimento (anziché gli articoli 13 e seguenti della stessa Carta) le disposizioni sovranazionali contenute nella Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, intese come “norme interposte” fra le regole fondamentali di derivazione nazionale e quelle, sovranazionali, di derivazione pattizia.
Dalla lettura del saggio di Benedetto si ricava, dunque, una lezione: perché un Paese possa definirsi effettivamente libero – e liberi ne siano i cittadini – non basta avere una Costituzione rigida, attraverso cui enumerare diritti soggettivi pubblici azionabili contro coloro che attentano alle loro libertà; ma occorre anche costruire e mantenere un apparato giudiziale che assicuri, nel concreto, quelle libertà ad ognuno di quei cittadini.
Gli accadimenti dell’ultimo trentennio dimostrano infatti come quell’apparato sia ancora di là dall’esser creato: ecco perché raccomando vivamente la meditata lettura di quest’opera e la sua diffusione fra tutti coloro che hanno l’ansia di vivere in un’Italia un po’ più democratica e finalmente liberale.
Almeno stavolta anche il Marziano si è dichiarato d’accordo con me e questa sola circostanza mi ha ulteriormente dimostrato l’attualità della parabola di Kurt come l’Alieno che passa da miracoloso demiurgo a poveraccio beffato in via Veneto da un gruppo di giovinastri, privi di ogni idea di giustizia: proprio come alcuni dei magistrati, inquirenti o giudicanti, che ognuno di noi ha avuto la ventura di incontrare sul proprio cammino.