Mentre mi accingevo a mostrare a Kurt il marziano le disfunzioni della nostra giustizia civile, quest’ultimo è riuscito, ancora una volta, a lasciarmi basito, sbandierandomi sotto il naso lo schema preliminare del Codice dei Contratti Pubblici che circola, fra un ristretto numero di addetti ai lavori, come “ bozza provvisoria e riservata” nei corridoi di Palazzo Spada, sede del Consiglio di Stato.
Pur contrariato dalla singolare circostanza di dover ricevere da un extraterrestre – anziché da una fonte istituzionale – la bozza di quel Codice, non ho resistito alla tentazione di esaminarla e di riferirne in questa Rubrica (visto che si tratta comunque di una disciplina assunta ormai a cardine del sistema di giustizia amministrativa, anche considerando la specialità del rito che la accompagna) ed ecco le mie prime considerazioni a caldo.
Dal punto di vista strutturale, i 230 articoli di cui il Codice si compone ricalcano sostanzialmente il modello di quello tuttora vigente (approvato con D.Lgs 18 aprile 2016, n.50) e la novità di maggior peso appare quella contenuta nella parte dedicata ai Principi Generali (artt. 1-12) – ben più corposa della precedente, almeno da un punto di vista sostanziale – che introduce finalmente criteri alla luce dei quali disciplinare l’evidenza pubblica che domina sempre e comunque la scelta del contraente di ciascuna stazione, appaltante o concedente che sia.
Si tratta di princìpi – di carattere essenzialmente eurounitario – già elaborati dalla giurisprudenza amministrativa, ma cui è saggio attribuire veste normativa, soprattutto al fine di raggiungere quella “certezza del diritto” che non ci stancheremo mai di considerare quale primo parametro alla luce del quale valutare l’uso della discrezionalità da parte dei giudici di ogni ordine e grado.
Dove invece penso di dover dare una valutazione negativa – pur se in continuità con la disciplina oggi in vigore – è a proposito dell’articolo 98, relativo all’illecito professionale, per essere ivi stata rinnovata una scelta politica che presuppone necessariamente di non voler applicare il principio europeo della “presunzione d’innocenza”: in base al quale le negative valutazioni delle stazioni appaltanti, rispetto a ciascun concorrente, possano essere fondate sull’accertamento di comportamenti illeciti che appaiano semplicemente “contestati”, anzichè definitivamente accertati con sentenze passate in giudicato.
In altre parole non trovo ammissibile che continuino a permanere, entro il nostro ordinamento, i frutti dell’ondata giustizialista che ha colpito – negli ultimi trent’anni – l’intero sistema di disciplina dell’economia del nostro Paese.
Questa osservazione mi consente di affermare che lo sforzo compiuto dei redattori del Codice non è valso – almeno in questa prima fase – a rimuovere il difetto fondamentale che affligge il modello oggi in vigore (in larga parte sospeso in periodo Covid, non solo per ragioni sanitarie, ma principalmente perché aveva prodotto la paralisi delle gare pubbliche, o almeno della maggior parte di esse), consistendo tale difetto nel porre maggiore attenzione alle qualità soggettive dell’offerente, piuttosto che al grado di vantaggiosità dell’offerta da quest’ultimo presentata.
Dal canto suo, Kurt non mi è sembrato particolarmente scosso da questa mia critica, visto che – consegnandomi il malloppo di 230 articoli (dieci più del precedente!) di cui il Codice si compone – ha esclamato, ridendo: “come si può valutare in pochi minuti e con due battute un lavoro così importante?”.
La mia risposta però lo ha gelato: “Se mi mancasse la presunzione di capire velocemente dove un qualunque atto normativo voglia andare a parare, meglio per me sarebbe cambiare mestiere!”.
Il Marziano però ha pure ben compreso che dovrò dedicare a questo testo molto più tempo di quello speso per darne un primo giudizio non esattamente positivo.
Dirò, per concludere, che questo terzo Codice dei contratti pubblici somiglia molto – in termini di paragone – alla Riforma Cartabia, perché rappresenta anch’esso un miglioramento rispetto all’assetto attuale, ma ci vuole ben altro per allineare il nostro sistema di giustizia (civile, penale o amministrativa che sia) a quello degli altri Paesi europei.