Alla luce di quello che leggiamo sui giornali in questi giorni, sarebbe fin troppo facile irridere gli sforzi del Governo in questa materia, vedendolo come la montagna che partorisce il topolino, da intendere come la riforma fiscale.
Né io né Kurt volevamo dunque procedere con l’irrisione quando – avendo appreso che lo sbandierato taglio delle tasse oscillava fra gli 80 e i 1.000 € per ciascun contribuente – abbiamo dovuto prender atto che l’abbattimento effettivo della pressione fiscale è rinviato ad altra data.
Quell’abbattimento, infatti, altro non dovrebbe essere che un appiattimento continuo e costante della curva delle aliquote, tale da avvicinarci al regime di altri Paesi europei, come Portogallo e Irlanda, dove si assiste a un’immigrazione incrementale delle residenze di pensionati, di lavoratori autonomi e di imprese che vogliono continuare ad operare nello spazio economico dell’Europa, ma cercano sempre e comunque le condizioni più favorevoli per massimizzare i loro profitti e neanche lo sciopero fallimentare che ha sancito la rottura dell’unità sindacale è servito a correggere la rotta lungo la quale tuttora si muovono gli autori di questa cosiddetta riforma fiscale.
Ben diversa è infatti la proposta di Draghi (che però ha avuto l’accortezza di farla presentare dal suo Ministro dell’Economia, le cui capacità ragionieristiche sono sicuramente superiori a quelle politiche) cui è mancato il coraggio di tagliare l’aliquota più alta: quella – per intenderci – che, sommata alle addizionali regionali e locali, sottrae a chi lo produca almeno la metà del reddito.
È invece proprio sulla soppressione di quell’aliquota – da tutti temuta, ma da pochissimi effettivamente pagata – che si giocano i destini di una riforma fiscale degna di questo nome; ma, purtroppo, quella riforma non la vedremo nemmeno stavolta e non solo perché non la vuole la sinistra, ma anche perché – sul punto del limite alla progressività delle imposte – anche la destra è divisa e l’impalpabile centro non riesce neanche a vedere il problema nella sua effettiva consistenza.
Attorno all’aliquota Monstre, d’altronde, si muovono interessi fortissimi e non sempre coincidenti con quello pubblico: si pensi, per tutti, ai vantaggi che ne trae un’economia sommersa che è fra le più diffuse del mondo occidentale, oppure al vorticoso giro d’affari che ruota attorno alle società di comodo, alle fiduciarie e alle altre scatole cinesi per aprire le quali ogni governo tende a fortificare l’apparato di cui il Ministero dell’Economia dispone al fine di combattere un’evasione fiscale che molti percepiscono come tale, ma che non si è mai riusciti a contrastare efficacemente perché – a differenza di quanto accade nei Paesi in cui l’aliquota più alta non rappresenta un peso insopportabile per chi deve pagarla – l’azione di contrasto all’evasione non è accompagnata dal sostegno della popolazione nel suo insieme.
Ma se quello dell’impennarsi della curva delle aliquote è il primo dei problemi da risolvere per ottenere una riforma fiscale che ci consenta di competere in Europa, ne esiste prima ancora un altro: che Kurt – con la sua logica marziana, che perfino Pitagora potrebbe condividere – ha saputo individuare meglio di qualunque Leader politico di casa nostra: sostiene infatti il Marziano che è tecnicamente errato legare la questione dell’ elevatezza delle aliquote superiori (e, in particolare, dell’ultima: pari al 43% del reddito dichiarato) alla gravità del debito pubblico accumulato, in Italia, da una spesa pubblica perlomeno dissennata.
Infatti – se meno dell’1 per cento dei contribuenti dichiara redditi tali da raggiungere quell’aliquota – è evidente che non potranno esser pagate neanche le imposte dovute per le aliquote più basse.
Assistiamo così al fenomeno (già descritto da Colin Clark a metà degli anni 30, secondo cui ogni punto superiore al 24% aumenta in modo esponenziale la propensione all’evasione) per cui, chi rifiuta di pagare imposte con aliquote più elevate, non può neanche pagare – anche volendolo – le imposte riferibili alle aliquote più basse: di qui la difficoltà di contrastare l’evasione.
A sostegno di questo suo ragionamento, Kurt mi ha ricordato quanto accadde allorché si estese il regime fiscale semplificato, allargandolo dalla platea dei contribuenti che dichiaravano redditi inferiori ai 30.000 € a quella di coloro che avrebbero dichiarato più del triplo: di colpo sono andati a cadere sotto tale – più favorevole – regime un numero di contribuenti addirittura superiore al triplo di coloro che in precedenza beneficiavano di un regime meno favorevole e l’Agenzia delle Entrate non ha potuto che avvantaggiarsi di quella mini riforma di cui però si erano avvantaggiati, per primi, i contribuenti.
Non diverso ragionamento – ha proseguito Kurt – potrebbe farsi a proposito delle cartelle esattoriali che vengono in questi giorni recapitate ai cittadini già stressati dalla pandemia: l’Agenzia delle Entrate sa benissimo che la massima parte di quelle cartelle non verrà mai pagata, per la semplice ragione che i contribuenti non hanno il denaro per pagarla; tuttavia non ha potuto fare a meno di notificarle, perché il Governo non ha ancora deciso come risolvere il problema della loro rottamazione.
Si preannuncia dunque una battaglia in Parlamento del cui esito ogni Partito tenterà di prendersi il merito, lasciando il demerito agli altri.
È la solita commedia all’italiana che solo un Marziano può comprendere meglio di noi.