Il calo dei contagi rallenta le misure anti pandemia, i tavolini dei bar tornano ad accogliere clienti, riaprono i locali di pubblico intrattenimento e così Kurt ne ha approfittato per tornare alle sue vecchie abitudini romane che non si limitavano – allora – a lunghe passeggiate nel centro storico e dunque si è addirittura spinto ad entrare in un teatro, incuriosito dal cartellone che pubblicizzava la trasformazione in spettacolo de “il Sistema”, l’intervista bestseller di Sallusti a Palamara.
Tornando a casa, il Marziano mi ha trovato in biblioteca e – vedendo sul mio tavolo da lavoro il classico di Jacques Verger intitolato a “Giustizia e Letteratura“ (Macerata, 2012) ha esclamato che anche la Pièce teatrale cui aveva appena assistito gli era sembrata un evento letterario: più precisamente il copione di un dramma shakespeariano dove – per dirla con Angelo Crespi (Cultura Identità, 11 giugno 2021, p. 3) – “si susseguono colpi di scena, rivelazioni inaspettate, furbizie e tradimenti, accoltellamenti alle spalle anche tra amici e sodali.
La forza è proprio quella di rivelare il marchingegno sottostante all’apparente normale vita pubblica di un paese, l’esercizio talvolta spregiudicato del potere e la sua conquista, le congiure che si sono succedute spesso al di fuori dei normali percorsi democratici che avrebbero dovuto avere massima espressione in libere elezioni, e così non è stato, il mercanteggiamento continuo tra le correnti della magistratura, gli accomodamenti con il mondo politico, il tentativo di prevalere, e soprattutto una sorta di regime che si è abbeverato ai più logori diktat di una sinistra giustizialista e massimalista, capace di governare l’Italia nonostante fosse minoranza, attraverso le inchieste giudiziarie e il consenso che a queste hanno attribuito i mass media e l’intellighenzia radical chic.”
Gli ho fatto così notare che sembra dunque aver ragione Verger quando afferma che “un dossier processuale è sempre il riassunto di un romanzo, il tema di una tragedia, la sinopsi di un film. Ma questa tragedia, questo romanzo, questo film restano allo stato incompiuti: all’una e agli altri manca un quinto atto, un epilogo o uno scioglimento: in breve un coronamento, fosse anche di spine, affinché il dramma sia completo.“
Una volta tanto, mostrandosi d’accordo con me, Kurt mi ha pure raccontato di un bravissimo Edoardo Sylos Labini che, impersonando Luca Palamara, ne declama la lenta ascesa ai vertici del potere giudiziario e poi la rapida discesa all’inferno; quando gli stessi magistrati – nell’interesse dei quali si era mosso nei gangli del “sistema” che ne governa le carriere – gli si sono rivoltati contro, tentando di espellerlo come il più scomodo dei testimoni delle loro improbabili fortune.
Procedendo ancora per metafore, direi che anche quei magistrati somigliano ai personaggi in cerca d’autore immortalati da Pirandello: questi ultimi però utilizzavano la scena per trovare una propria identificazione, i primi invece hanno fatto di tutto per nascondere – anziché ricercare – il loro Autore (anche perché lo conoscevano benissimo!).
Ho tentato così di spiegare a Kurt che – fuor di metafora – la vicenda umana e professionale del giudice Palamara si può facilmente spiegare rammentando a noi stessi che il suo ruolo di capro espiatorio è in fin dei conti la reiterazione di quanto accadeva nelle società arcaiche tutte le volte che si inceppava il meccanismo dello scambio e delle sue tre caratteristiche (dare, ricevere, ricambiare) come descritto da Marcel Mauss nel suo “Saggio sul dono” (Torino, 1965).
Questo mio richiamo all’antropologia non è stato però apprezzato dal Marziano, che ha concluso seccamente la nostra conversazione sul punto, dicendomi che – almeno nel suo pianeta di provenienza – potere e responsabilità rappresentano un’endiadi indissolubile e perciò quel che è accaduto a Palamara, dalle sue parti, non sarebbe stato neanche immaginabile: di più, sarebbe sembrato opera di fantascienza piuttosto che espressione di un sistema politico che vede nell’irresponsabilità dei giudici un presidio della democrazia.
Tantomeno Kurt è rimasto convinto dal mio richiamo ai lavori dell’Assemblea Costituente, dai quali ben risulta come la riesumazione dell’Associazione Nazionale Magistrati fu vista come il miglior rimedio contro lo strapotere della politica in danno dell’autonomia e dell’indipendenza dei giudici.
Non vorrei però che questo modo di opinare continuasse a permeare il dibattito in corso, condizionando addirittura l’esito dei referendum in via di allestimento: in particolare quello sulla responsabilità dei magistrati che proprio la vittima del sistema – Palamara appunto – ha rifiutato di sottoscrivere, mentre ha firmato tutti gli altri.
Siamo forse in presenza di un nuovo caso di sindrome di Stoccolma?
Il Marziano tende ad escluderlo seccamente, ma a me qualche dubbio è rimasto.