Al “Social summit” di Porto, tenutosi nei giorni passati, il nostro Presidente del Consiglio ha espresso una serie di concetti che non solo condivido pienamente, ma che riflettono la mia idea “progressista”.
Partiamo da quest’ultimo aggettivo.
Non so più se “progressismo” coincida con la sinistra italiana. Mi domando, insomma, se la sinistra italiana – sostanzialmente rappresentata dal contraddittorio e variegato PD – rappresenti una via per un progredire della società o se si sia trasformata nella gelosa conservatrice di privilegi e posizioni piccolo borghesi legati al pubblico impiego, al “posto sicuro”, ai permessi retribuiti della 104. Direi quest’ultima, guardando – almeno con riferimento a Roma – ai quartieri dove prende voti o dando retta alle sempre attente ed argute osservazioni di Gianfranco Rotondi, sintetizzate in un suo recente twitter: «Quando la sinistra abbandona la rappresentanza dei ceti operai, e diventa un fascio di nervi scoperti della borghesia intellettuale, ecco che se la può portare via un Grillo o un Fedez».
Nella sostanza un «D’Alema, D’Alema dì qualcosa di sinistra» invocato da un dichiarato democristiano ultracentrista, che avverte la necessità di ristabilire l’equilibrio perduto.
Mi rendo conto, mentre scrivo, che il mio riferimento mentale e culturale è ad uno schema – destra, centro, sinistra – che i miei figli non esiterebbero a dichiarare superato ed inesistente: e che, oggettivamente, oggi appare quantomeno in crisi.
In effetti, e con ciò passiamo alla mia condivisione delle considerazioni di Draghi, dubito che la mia qualificazione “progressista” delle stesse possa trovare unanimi consensi.
Secondo il nostro Presidente del Consiglio l’Europa è fallita e non è riuscita a perseguire gli obiettivi che essa stessa si era dati: «Da tempo l’UE ha fatto del suo modello sociale un punto di orgoglio. Il sogno europeo è di garantire che nessuno venga lasciato indietro, ma già prima della pandemia, le nostre società e i nostri mercati del lavoro erano frammentati. Disuguaglianze generazionali. disuguaglianze di genere e disuguaglianze regionali”.
Ecco che, allora, la disuguaglianza – il contrario dell’egualité, uno dei tre capisaldi della Rivoluzione francese, l’unico che abbia trovato accoglienza nei falliti esperimenti del socialismo reale dal quale fraternité e liberté erano stati reietti – viene utilizzata per denunciare privilegi che da una parte politica vengono considerate conquiste irrinunciabili: anche se vanno a discapito dei giovani, delle donne, di chi abbia avuto la ventura di nascere in determinate regioni.
Cruda, con numeri da economista, l’analisi dello stesso Draghi: «Nell’UE un giovane su sette non occupato, né frequenta un corso di istruzione o di formazione. In Italia siamo vicini a uno su quattro. Il divario nel tasso di occupazione tra uomini e donne nell’UE si attesta a 11,3 punti percentuali. In Italia è quasi il doppio. Un terzo della popolazione italiana vive nelle regioni del Sud, ma la sua quota di occupazione totale è solo di un quarto. Questa non è l’Italia come dovrebbe essere, né l’Europa come dovrebbe essere»
Numeri che lo Stato (e la UE) avrebbe dovuto sapere evitare.
Ecco che allora non ritengo “progressista” ancorarsi e difendere un sistema di lavoro che è improponibile se rivolto ai giovani d’oggi che, oggettivamente non possono aspirare ad una “sistemazione” definitiva, quel “mi sono sistemato” che quelli della mia generazione prima o poi abbiamo quasi tutti pronunciato, riferendoci all’avere trovato un lavoro ed all’avere intrapreso un’unione stabile.
Non possono farlo perché le attuali esigenze del mercato non lo consentono, perché le imprese rispondono a logiche differenti da quelle delle fabbriche dove è nato, nell’Ottocento, il movimento operaio. Perché perfino nel pubblico impiego, inesorabilmente, prevarrà l’efficienza, piuttosto che una inesistente e solo apparente parità e carriere determinate da opportunismo.
Una uguaglianza soltanto enunciata che non tiene conto delle capacità e motivazioni personali e che determina le disuguaglianze che ha denunciato Draghi: la disoccupazione giovanile e meridionale, la sotto occupazione femminile sono effetti di un’azione inefficiente ed impotente dello Stato.
Lo Stato si trova al bivio di dovere nuovamente pensare ad una “Forestale” tipo quella calabrese di fine secolo scorso, forte di un esercito di centomila addetti, pagati per non fare nulla, una specie di ipocrita assegno di cittadinanza. Facendo finta con ciò di risolvere un problema. Oppure può riorganizzarsi secondo criteri moderni ed efficienti e dando spazio ai migliori: ciò che credo sia nelle corde di Draghi, tenendo conto che in strutture pubbliche come la BCE o la Banca d’Italia non si entra se non in forza di una preparazione encomiabile e si rimane solo confermando momento per momento la propria capacità.
Se non seguirà tale seconda via si sarà solamente dato il via all’ennesima diseguaglianza. Quella divisione, accentuata anche dal Covid, ben sintetizzata in un “Caffè” di Gramellini con la contrapposizione tra “fannulloni” (gli impiegati pubblici; e non è vera la generalizzazione) ed “evasori” (i piccoli imprenditori; e anche in questo caso la generalizzazione è sbagliata).
Ma sarà un errore per la sinistra abbandonare a sé stessa questa ultima categoria, che economicamente ha pagato più di tutti la pandemia, e che nello Stato oggi vede solamente un nemico, che gli rende difficile lavorare, finanche vivere; e che gli mette le mani in tasca. Facile preda della destra.
Ma non c’è nessuno che gli spieghi che non è così, sapendogli però indicare una dignità di vita e di lavoro.