Man mano che passa il tempo, il mio amico Marziano si appassiona sempre di più alla lettura dei giornali e i suoi interessi spaziano dai fatti di cronaca fino al pensiero espresso dai grandi personaggi della politica e della cultura; ma quello che più mi colpisce è il suo approccio ai temi trattati: infatti – a differenza di quanto accade per la maggioranza dei lettori, che guardano i giornali con l’occhio di chi vuol raccogliere notizie – a Lui interessa soprattutto il retropensiero di coloro che quelle notizie (anche quando vengono date sotto la forma di raffinati ragionamenti) diffondono.
In particolare Kurt, ha richiamato la mia attenzione su un titolone di Repubblica dello scorso 8 giugno: “Meloni rompa con Orbàn”.
L’articolo che ne segue – solo apparentemente destinato ai cultori della politica estera del Governo Meloni – è un’intervista a Giuliano Amato, nella quale l’ex Presidente della Corte Costituzionale suggerisce al nostro Presidente del Consiglio di rinunciare ad ogni presunta “deriva anti-UE”, per riaffermare una piena continuità con la politica europea dei precedenti governi, chiedendole pure di prendere atto che l’Italia ha bisogno dell’Europa, ma non viceversa.
In realtà la questione è più complessa, perché quella fra Europa e Stati membri è una realtà intrecciata, traendo l’Unione, come entità sovranazionale, la propria legittimità, la propria forza e la propria influenza proprio dagli Stati membri che la compongono e senza il cui consenso e sostegno mai potrebbe funzionare efficacemente.
Ma cosa ha voluto dire davvero l’illustre giurista con questa affermazione a senso unico, seguita da rituale domanda?
“Noi abbiamo bisogno dell’Europa – dice testualmente Amato – E l’Europa nutre ancora diffidenza nei nostri confronti. Converrà alla Meloni schierarsi con Orbàn, o piuttosto mettere al riparo la nostra economia?”
Si tratta di una domanda evidentemente retorica (ma che richiama anche le indimenticabili vicende che portarono all’avvento del Governo Monti) e il Dottor Sottile se ne rende ben conto, visto che – più avanti – precisa come un diverso comportamento del governo italiano sulle scelte fondamentali che si andranno a fare – magari mettendo mano ad una eventuale riforma istituzionale di segno presidenzialista – altro non sarebbe che la manifestazione di un “uso declamatorio del diritto” (sic!).
Quest’ultima espressione ha particolarmente colpito Kurt, che mi ha domandato di spiegargliene meglio il significato e così mi è toccato tornare nei vecchi panni del docente per ragionare di retorica, simbolismo e politica secondo il linguaggio dei giuristi.
Fare un uso declamatorio del diritto vuol dire, infatti, usare quest’ultimo strumento non solo come mezzo per realizzare la giustizia, ma soprattutto come artificio per promuovere un messaggio, un’agenda politica o un simbolismo sociale.
In particolare, nell’uso declamatorio del diritto, le tecniche di retorica e simbolismo sono utilizzate in modo più strategico e deliberato di quanto non accada in altri ambiti, perché qui l’operatore di turno (che può essere un avvocato, un giudice, un legislatore o un attivista politico) può utilizzare il diritto come un palcoscenico per promuovere un messaggio, un’agenda politica o un’altra forma di simbolismo sociale.
In tal modo il diritto, come concetto, può assumere le forme più varie: un legislatore può introdurre un disegno di legge principalmente per il suo valore simbolico o per stimolare il dibattito pubblico, pur sapendo che la sua proposta normativa ha scarse possibilità di trasformarsi in legge; oppure un avvocato può portare una causa davanti ad una corte con la ben celata intenzione di farla soprattutto valere come appello all’opinione pubblica al fine di mettere in discussione la validità e l’effettività di una legge esistente.
Altrettanto potrebbe fare un attivista quando avvia una causa similare come veicolo per promuovere le ragioni del proprio attivismo, sensibilizzando l’opinione pubblica su un caso concreto.
L’uso declamatorio del diritto è però una spada a doppio taglio, perché – se da un lato può servire come potente mezzo da utilizzare per contribuire ad un determinato mutamento sociale e politico – dall’altro lato può rivelarsi manipolativo, venendo a distorcere la celebrazione del processo che si promuove a tal fine, solamente per raggiungere il non secondario effetto di minare la fiducia del pubblico in determinati meandri del sistema legale, visto non più come strumento di giustizia, ma come elemento di un gioco politico ben più ampio.
L’uso declamatorio del diritto appare dunque come una pratica complessa e sfaccettata, che riflette l’intreccio tra diritto, politica e società; come tale può essere sia un motore di cambiamento sociale che uno strumento di manipolazione politica e la sfida per gli operatori del diritto è quella di saper navigare all’interno di questo delicato equilibrio, utilizzando la legge processuale per promuovere la giustizia e l’equità, senza perdere di vista l’integrità e l’imparzialità delle procedure utilizzate a tal fine.
Avrei potuto proseguire a lungo in questa mia illustrazione, se il Marziano – dando evidenti segni di impazienza – non mi avesse interrotto, chiedendomi quale fosse il recondito scopo dei ragionamenti del Presidente Amato: a proposito di Europa, come di riforme istituzionali.
Messo alle strette dalla secca reazione di Kurt, gli ho fatto notare come, in realtà, lo stesso Amato – pur discettando di massimi sistemi, al pari di un nuovo Galileo – fosse mosso dalla concreta preoccupazione di ciò che potrebbe accadere nei prossimi mesi a seguito della scadenza dei quattro Giudici Costituzionali a suo tempo eletti da un’assemblea Parlamentare di orientamento politico assai diverso da quello attuale.
“Vedremo – dice l’ex Presidente della Corte – se le nuove nomine saranno tutte espressioni della maggioranza politica, alla quale mancano solo 11 voti per i 3/5 necessari” alla elezione dei nuovi giudici.
Ecco dunque cosa davvero sembra nascondersi dietro quella lunga intervista che non ha nulla di casuale: la paura – per la sinistra – di perdere il controllo della Corte Costituzionale, a lungo mantenuto con le conseguenze che tutti conosciamo: prima fra tutte quella per cui, quando la sinistra veniva battuta in un Parlamento da lei pienamente controllato, la non gradita scelta del legislatore veniva successivamente portata all’attenzione dei Giudici Costituzionali, su impulso di altri giudici che sollevavano – talvolta addirittura d’ufficio – la questione di legittimità di quelle scelte, ottenendone una declaratoria di incostituzionalità per la quale era abbastanza semplice trovare una minima motivazione a supporto.
È accaduto in materia di giustizia (cancellazione delle disposizioni in materia di inappellabilità delle sentenze di assoluzione da parte dei PM), come in quella dei rapporti fra Stato e regioni (si pensi alla Sanità o all’Agricoltura), ma l’elenco è lungo e, per non rischiare ulteriori manifestazioni di impazienza da parte del Marziano, ho preferito fermarmi nel mio elencare.
Anche Kurt è rimasto in silenzio e sono tutt’ora in attesa di capire se io sia riuscito, o meno, a fargli condividere la mia interpretazione delle ragioni che sono alla base della richiamata “intervista”; resto convinto però che Giorgia Meloni potrà far tutto, tranne che seguire i suggerimenti di Giuliano Amato, a meno che non voglia effettivamente scegliere la continuità politica con i governi che l’hanno preceduta; ma questo significherebbe – per il Suo governo – accorciarsi sicuramente la vita.