“E quindi uscimmo a riveder le stelle”: l’espressione di Dante che pone fine all’Inferno, ed esattamente l’ultimo verso del canto XXXIV. La condizione dell’anima che risale dal buio degli inferi e vede in senso lato e stretto al contempo la luce. Una metafora che non significa unicamente rinascita e rigenerazione ma che personalmente ho sempre legato alla capacità di discernimento; quello che la spiritualità cristiana descrive come frutto di volontà, intelletto ed abilità.
IL LAVORO DI RICERCA
Il discernimento infatti non è mai figlio del caso. Edith Stein ritenne che per discernere occorresse per prima cosa essere in grado di prendere profondamente contatto con la propria coscienza. Qualcosa che più che a un’attitudine mistica è affine alla ricerca: perché chi sa discernere, prima di saperlo fare si è reso artefice di un lavoro di ricerca, fuori e dentro sé stesso, il cui esito si propone come, da vocabolario: “Riuscire a vedere o a comprendere con sufficiente chiarezza”.
L’IRRAZIONALE PER IL REALE
Come per “l’errante fantasia” di Foscolo che lo conduce “a discernere il vero”; dove la contraddizione tra il vagabondare della fantasia astratta, così apparentemente antitetico rispetto alla concretezza della realtà più vera, genera la purezza della verità. L’ossimoro che ha il cuore di un paradosso ne Le Grazie di Ugo Foscolo, è dunque allo stesso tempo addendo e risultato: poiché l’irrazionale conduce al reale, al vero, al bello. Alla bellezza perché chi sa discernere, sceglie bene perché vede bene; e ci vede perché ha cercato strenuamente di vedere ancora meglio: ha distinto perciò la differenza ed ha scelto di uscire a ri-vedere la luce delle stelle, la lucidità della mente.