È difficile negare che Kurt stia diventando invadente, visto che mi offre sempre più occasioni di confronto sulle questioni più varie; ma è altrettanto vero che i miei ragionamenti con lui si reggono sempre su un assunto: fra gli anni 50 che lo videro protagonista della farsa di Flaiano e l’oggi, la situazione politica e sociale – in Italia e (forse) non solo – si sarebbe modificata assai meno di quello che il pensiero ora dominante vorrebbe farci credere.
In altre parole il cosiddetto “passaggio dalla società rurale a quella postindustriale” (Drucker P. F., Le sfide di management del XXI secolo, Milano, 2017) ha comportato, nel modo di sentire degli italiani, molte meno conseguenze di quelle che vuol somministrarci la nutrita schiera di intellettuali ogni giorno incombenti sui nostri pensieri e sulle nostre abitudini.
Ieri, per esempio, ho avuto non poche difficoltà a spiegare al Marziano come mai a distanza di settant’anni la questione fiscale continui ad agitare i sonni degli italiani tutti: abbienti o meno abbienti che essi siano.
L’uso spregiudicato della scienza delle finanze ha infatti prodotto, almeno in Italia, esiti talmente paradossali per cui i denigratori della Flat Tax – orgogliosi del ruolo di cani da guardia delle imposte progressive – sono fra i più entusiasti sostenitori della sua applicazione in favore degli stranieri che stabiliscano la propria residenza in Italia e – al contrario – i sostenitori del suo appiattimento sono fra i più contrari a prevederla per questi ultimi.
Ma dove il paradosso raggiunge il suo apice è nel ricorrente tentativo dei Ministri dell’Economia succedutisi negli ultimi settant’anni di innalzare il livello della progressività, dichiarando che questo è il miglior modo per combattere l’evasione e l’elusione fiscale.
Non sfugge a questa logica perversa neanche l’ultima ipotesi di riforma del nostro sistema fiscale che – anziché occuparsi di dare finalmente efficienza alla macchina del prelievo – torna a correggere la curva delle aliquote alleggerendone la parte centrale ma aggravandone quella superiore; così ottenendo un risultato doppiamente negativo: percuotere ancora di più coloro che si dimostrano maggiormente fedeli al dovere fiscale e rendere per questi ultimi sempre più appetibile il richiamo verso il trasferimento e la residenza in altri Paesi dello spazio unico europeo.
L’unico vantaggio di un simile disegno è quello di comunicare chiaramente agli italiani che il riequilibrio delle distanze sociali fra contribuenti non si realizzerà innalzando il benessere dei meno abbienti, ma piuttosto abbassando quello di cui godono i più abbienti: facilmente immaginabili le negative ricadute sui consumi che questo governo dice di voler stimolare al fine di ottenere una ripresa più celere e più stabile dell’economia.
A dire di Kurt però, un simile modo di opinare non troverebbe alcuno spazio fra i marziani e tanto questo è vero – dice Lui – che nessun governante del suo Paese gli chiederà mai conto dei viaggi stellari compiuti nello spazio e nel tempo degli ultimi settant’anni al fine di verificarne la fedeltà di contribuente.
Nessun dubbio però che questo mio interlocutore sia anche un marziano colto: egli mi ha infatti citato uno studioso di scienza delle finanze molto in voga negli anni 40 e 50; si chiamava Antonio De Viti de Marco ed era talmente noto al mondo accademico internazionale da esser stato chiamato nella Cina di Chiang Kai-Schek (mi dicono che si pronunci così, ma… si scrive ancora così?) per dotare finalmente quell’immenso Paese di un sistema fiscale degno quel nome. De viti de Marco non riuscì però a portare a termine il proprio lavoro perché, nel frattempo, un tale Mao Tse Tung (mi dicono che si pronunci così, ma… si scrive ancora così?) si era messo in marcia per spodestare Chiang, raggiungendo l’obiettivo; ma – visto il tipo di regime che voleva introdurre – non si preoccupò affatto della questione fiscale, non essendovene praticamente più ragione.
Se ne cominciarono a preoccupare invece i successori di Mao, riprendendo – senza però farlo sapere in giro – le proposte dello studioso italiano e tentando di capire se vi fosse qualcosa di buono da utilizzare.
Forse una rilettura delle opere di De Viti De Marco non dovrebbe risultare indigesta a coloro che – facendo spola fra Palazzo Chigi e Via XX settembre – stanno completando una riforma fiscale che non mi sembra promettere alcunché di buono.
Mi domando però – e Kurt con me – se non sia già troppo tardi per evitare al fisco italiano l’onta di un’altra occasione perduta, che potrebbe avere riflessi negativi persino sulla erogazione dei fondi previsti in quel PNRR di cui molto si parla in questi giorni (talvolta anche a sproposito).