I media, i social ci conducono ad un inno dominante: “Non mi vergogno di ciò che sono e che faccio” anche e perfino se questo comporta operare nel male: dire male, fare male. E il tratto distintivo del male è – infatti – la banalità, la noia ed il ripetersi vorticoso di schemi sempre uguali e di personalità prive di carisma e di originalità: che come automi appaiono quasi fossero uno il sosia dell’altro.
Questo lo scriveva la filosofa Hannah Arendt nel suo resoconto del processo ad Eichmann da giornalista per il New Yorker. Un po’ il contrario di quello per cui il pensiero generale sembra protendere oggi – il cui messaggio veicolato urla a squarciagola: “brutto è bello, male è giusto” confondendo l’accettazione dei difetti etici ed estetici come qualcosa di cui vantarsi e da ostentare; come se non ci si dovesse più vergognare di niente, anzi farne un motivo di orgoglio.
L’OSTENTAZIONE DEL DIFETTO E LA MORTIFICAZIONE DELL’OGGETTIVITÀ
Alcuni programmi televisivi addirittura pongono all’ospite con fierezza quale domanda determinante “la più grande carognata che ha fatto” tramite una nient’affatto sottesa esaltazione della sua natura “feroce”, a partire dal titolo. Ma allora, mi chiedo: qual è il confine tra l’accettare un difetto personale o del prossimo e giungere addirittura a glorificarlo? Accettare l’imperfezione morale ed estetica, non significa doverne fare un baluardo che disprezzi il bene, che mortifichi il buono o il bello. La soggettività, fondativa di ciascun parere critico non può ergersi a superare l’oggettività del reale.
LA GIUSTIZIA NON È AVVERSA ALLA PIETÀ
La comprensione, la pietà non dovrebbe – credo – sovvertire ogni criterio di giustizia e di verità. Nell’Olimpo degli dèi greci infatti Dike (“giustizia”) e Aidòs (“pietà”) siedono accanto al trono del re di tutte le divinità, Zeus; secondo Esiodo: “La vergine Dike, figlia di Zeus, è nobile e rispettata tra gli dèi dell’Olimpo. E quando qualcuno la offende disprezzandola (…) (Dike) denuncia a gran voce il pensiero degli uomini ingiusti, sinché il popolo sconta la follia dei loro capi” (Esiodo, Opere e giorni). Altrimenti, con il criterio corrente, si rischierebbe in qualche modo di esercitare una sorta di discriminazione al contrario: di valorizzare il marcio e mortificare il merito; e di condurci nientedimeno che a doverci vergognare delle nostre qualità, che rappresentano invece il nostro personale ed inestimabile patrimonio interiore.
LA NOIOSA CELEBRAZIONE DELLA MEDIOCRITÀ POLITICAMENTE CORRETTA
E oltretutto, se non bastasse il disgusto, l’amaro in bocca che lascia l’ingiustizia – è anche noioso: tutto questo politically correct in senso opposto, che celebra la mediocrità, è banale, è stucchevole. Proprio come quella Banality of evil – di cui sopra – della Arendt. Se accettiamo il meno, non dobbiamo per forza svalutare il più: i nostri lati migliori, a vantaggio dei difetti, dei traumi, delle mancanze: di questa smodata esaltazione della tristezza come ci trovassimo in una qualche brutta copia di decadentismo ottocentesco, privo però del suo caratteristico fervore culturale e della fondamentale profondità esistenziale, quale risvolto spirituale. Non è più intelligente lamentarsi se la protesta è fine a sé stessa: soprattutto se poi non c’è quello spessore che tramuti la lamentela in rivincita, che ci dia la spinta a migliorare quella versione di noi stessi.